
Quel
nome, Fausto, poco importa che sia il suo secondo. E che da tutti sia
conosciuto solo come Luciano. Perché anche sui documenti, come quelli
con
cui la Provincia di Monza gli ha affidato anche lo scorso anno il
recupero della fauna ittica su tutta la Brianza, l’autorizzazione è
firmata in favore di Malabrocca Luciano Fausto. Non un di più, ma una
duplice reminescenza.
La prima è proprio nel secondo
nome di battesimo, che nel ciclismo lo colloca in scia proprio del suo
grande conterraneo Coppi. La seconda luccica sullo sfondo di quel che la
maglia nera per eccellenza ha lasciato in eredità nel mondo dei pedali,
ad opera di suo papà Luigi. O Luisin, come
tutti lo conoscevano quando correva in bicicletta ai tempi di Bartali e
Coppi, appunto.
Luciano Malabrocca, di quei tempi, di ricordi non ne ha
molti. Papà Luisin, morto nel 2006 a 86
anni, non parlava molto di quando al Giro d’Italia si infilava in
osterie e fienili, si nascondeva nelle scarpate o si tuffava nei pozzi. A
chi gli domandava perché lo facesse, rispondeva serafico: «Sto correndo
il Gir d’Italia», col suo accento pavese. Malabrocca
fu maglia nera nella corsa rosa, per scelta. E necessità, visto che
all’ultimo classificato spettavano premi in denaro. Per i quali
Malabrocca si impegnava non poco nello staccare tutti. Ma al contrario.
Sebbene in carriera vinse 15 corse da professionista
tra cui la Coppa Agostoni del ’48, scelse di essere il calimero dei
girini per due anni di seguito, portando casa dei bei dané. Più facile
arrivare ultimo che primo in fondo, del resto
là davanti da battere c’era proprio Fausto Coppi, tortonese come lui e
Giovanni Cuniolo. Anche se la prima volta che vide il Campionissimo,
Malabrocca scolpì la sua sentenza per il sorriso dei posteri: «La prima
volta che lo vidi, pensai: “Se questo un giorno
riesce a finire una corsa, io vinco il Giro”».
Luisin era “il cinese”,
per quei suoi occhi. A Vasco Bergamaschi, mantovano di San Giacomo delle
Segnate, spettò l’epiteto di “Singapore”. L’America, Malabrocca, la
trovò però a Garlasco, sceso di bicicletta.
Si scelse una cascina umida, poco distante dal Santuario del Bozzolo,
l’odore acre del torrente Tardoppio a riempire le narici. È lì che
imparò a pescare, trasmettendo la passione ai figli. Oggi Luciano, di
quella passione ne ha fatto un lavoro. Recuperando
pesci durante le asciutte degli specchi d’acqua di Brianza, come il
laghetto Belvedere di Sovico. «È qualche anno che vengo lì, mi chiamano
in mezza Lombardia. Di ricordi di mio papà ciclista ne ho pochi, ero
piccolo. Ma conservo una foto di quando ero bambino,
in braccio a Coppi».
La carriera di papà maglia nera si concluse
nella tappa finale del Giro del ’49, la Torino-Monza, con traguardo a
Milano. Si attardò a casa di un tifoso, dopo essere stato in un bar. E
arrivò oltre tempo massimo. La sua vita è stata
un romanzo, ne hanno scritto libri e spettacoli teatrali. Messi in
scena nel gennaio 2008 anche al Binario 7 di Monza, con regia di
Roseario Tedesco e interpretazione di Matteo Caccia.
«Da ragazzino gli andavo dietro, assistevo alle gare», spiega Ezio, primogenito di Malabrocca,in passato a sua volta impegnato nel recupero del pesce danneggiato dalle secche. «Io sono del ’46, mio papà era del ’20 e ha corso sino al ’58, diventando anche campione italiano di ciclocross. Ma a lui non piaceva essere al centro dell’attenzione, amava la campagna e la pesca. Lo accompagnai spesso a eventi organizzati con Sante Carollo», altro specialista negli arrivi in coda al gruppo, «ma non voleva sfruttare la sua fama nel ciclismo. Poi un anno lo invitarono a Santa Maria Maggiore, in Valvigezzo, alla camminata della Sgamelaa. La zona gli è piaciuta, ha comprato casa lì per andarci con mia mamma. Oggi qui a Garlasco non lo ricordano come forse dovrebbero, ma si dice che nessuno sia profeta in patria. E lui non parlava molto. Non ho nemmeno mai capito se avesse o meno 7 fratelli, come si dice, tra Lourdes e gli Stati Uniti.
Stefano Arosio
Se sei giá nostro utente esegui il login altrimenti registrati.