L'EREDITA' DI MICHELOTTI. «Quella volta che aiutai Gimondi»
STORIA | 30/01/2015 | 07:30 «Adesso le racconto una storia che non ho mai raccontato a nessuno. Ma mi deve promettere di non scriverla finché io sono in vita, perché non voglio che il protagonista ne sia danneggiato». Era la primavera 2012 quando Giovanni Michelotti - che per un quarto di secolo è stato il vice di Vincenzo Torriani e il deus ex machina del Giro d’Italia, oltre che l’organizzatore di alcune importanti manifestazioni ciclistiche internazionali tra gli anni Settanta e Ottanta (nel 1978 fece arrivare una cronometro a Venezia, in Piazza San Marco, su un ponte di barche, e nell’85 organizzò i mondiali su strada di Montello, in Veneto) - mi fece fare questa promessa. Ero andato a trovarlo a casa sua, a San Marino, dove era tornato dopo la pensione «perché qui ho le mie radici e da qui si vede il più bel tramonto del mondo», per raccogliere la testimonianza di un’altra storia di cui era stato protagonista nell’immediato dopoguerra, quando sul Titano governavano i socialcomunisti e lui, democristiano, emigrato in America, aveva ricevuto l’incarico di organizzare il rimpatrio dei sammarinesi per far vincere le elezioni del 1955 alla Dc, che invece le perse clamorosamente e dopo non volle nemmeno pagargli il viaggio di ritorno. Nel ricordare gli anni andati, quell’omone grande e grosso dall’aspetto burbero ma con gli occhi chiari e lo sguardo gentile si era sciolto e gli era venuta voglia di raccontarmi anche quest’altra storia, inedita, sulla Corsa Rosa del 1967, la prima delle tre vinte da Felice Gimondi. Il 22 ottobre scorso, a 90 anni, Giovanni Michelotti se n’è andato. Il suo segreto è un pezzo di storia del nostro ciclismo che si può svelare, peraltro senza danneggiare nessuno. È l’8 giugno 1967. Si sta correndo il 50esimo Giro d’Italia. Il campione da battere è il francese Jacques Anquetil, che con i suoi 33 anni è ormai a fine carriera. Gli emergenti sono Gimondi, che ha 25 anni, e un belga poco più che ventenne: Eddy Merckx. Tra i protagonisti ci sono anche Vittorio Adorni e Gianni Motta. Siamo alla 19esima tappa delle 22 previste, da Udine alle Tre Cime di Lavaredo: un arrivo inedito, al termine di una salita molto impegnativa. La maglia rosa è sulle spalle di Silvano Schiavon, discreto scalatore ma solo un comprimario del Giro. La classifica è fluida. La strada che conduce ai 2.320 metri del rifugio Auronzo è stretta, ripida, sterrata e per di più quel giorno nevica. «I corridori faticavano a stare in equilibrio - racconta Michelotti -, le migliaia di appassionati che si erano radunati lungo gli ultimi chilometri di quella salita si erano sentiti in dovere di spingerli più del solito, anche per evitare che scivolassero sul fondo fangoso e innevato. Quel giorno, d’accordo col prefetto di Belluno, avevo schierato un migliaio di alpini sul percorso. Stavano lì dalle 7 del mattino, per scaldarsi bevevano grappa, al pomeriggio erano quasi tutti ubriachi, anche loro si misero a spingere i ciclisti, se li “buttavano” da uno all’altro divertendosi come matti: un macello». Tutti gli atleti, chi più chi meno, beneficiano delle spinte. Tranne uno, il ventiduenne Vladimiro Panizza, scalatore puro, al suo primo anno da professionista che in quella bufera tenta la fuga per la sua prima vittoria, ma viene ripreso e superato a pochi chilometri dall’arrivo dai campioni in lotta per il primato. Al traguardo Gimondi precede Merckx e Motta, stacca il favorito Anquetil e si prende la maglia rosa. Panizza arriva stremato e in lacrime. «Ma il mio amico e compagno di tante avventure, Sergio Zavoli, il mitico cronista Rai al Giro, sempre alla ricerca di argomenti di rilievo per il Processo alla tappa che teneva incollati al teleschermo milioni di spettatori - racconta Michelotti - trasformò le spinte ai campioni e le lacrime di Panizza nello scandalo del giorno, fino a convincere Torriani ad annullare la tappa. Io lo appresi quando la notizia dell’annullamento era già diventata ufficiale e ne fui molto contrariato. È vero, c’erano state spinte, ma non mi pareva giusto vanificare il gesto atletico di un corridore come Gimondi. E men che meno mi andava giù che quella decisione finisse per penalizzare l’italiano e premiare il francese». Gimondi è infuriato e minaccia di ritirarsi. «Dipendesse da me, domani non si parte; se mi obbligano farò il turista», dichiara. La sua squadra, la Salvarani, lo convince a ripartire. Il giorno dopo, nella tappa da Cortina a Trento vinta da Adorni, la maglia rosa passa ad Anquetil. La tappa successiva, da Trento a Tirano, comprende altre due salite impegnative: il Tonale e l’Aprica. Michelotti, che ancora non ha digerito la decisione di due giorni prima, aspetta l’occasione buona per «rendere giustizia a Gimondi». E l’occasione si presenta proprio quel giorno. Il campione bergamasco va subito all’attacco e stacca Anquetil sul Tonale. Nella discesa, però, il francese rientra. In fondo, a Ponte di Legno, c’è il rifornimento. Gimondi non lo fa e riparte all’attacco, distanziando di qualche decina di metri il suo avversario. «Quando vedo Felice allungare in fondo alla discesa del Tonale - racconta Michelotti - mando due motociclisti a fare blocco dietro, con l’ordine tassativo di non fare passare nessuno, nemmeno la macchina della Rai con Zavoli e la telecamera. Poi con l’ammiraglia affianco Gimondi nel gruppetto di testa e gli dico «dai che andiamo». Lui è uno sveglio, capisce al volo e si mette in scia. Poi dico al mio fedele autista, Isidoro, il più bravo del Giro, l’unico che conosce le mie intenzioni: “dai, accelera, se riusciamo mi vendico delle Tre Cime”. L’abbiamo portato via così, Felice. Sul piano a 50-55 all’ora, nel tratto in discesa fino agli 80-90. Poi sulle rampe dell’Aprica lui ha fatto il resto, è arrivato al traguardo con più di 4 minuti di vantaggio, si è ripreso la maglia rosa e ha vinto il Giro. Io sono stato l’unico testimone di quel suo straordinario volo fino a Tirano. Nessuno ha potuto documentare l’aiutino. Nemmeno Zavoli è riuscito a vedere quello che ho fatto. Nel dopo tappa e nei giorni successivi si vociferava. Anche Sergio raccontò che qualcosa di strano era accaduto, ma se lo immaginò soltanto perché le immagini non le aveva. A distanza di anni, Raphael Geminiani, direttore sportivo di Anquetil, mi venne ad accusare apertamente di avere favorito Gimondi ai danni del suo corridore. Ma “Gem” era un personaggio pittoresco, un gran chiacchierone, soprattutto dopo aver mandato giù qualche bicchiere. Avevamo le stesse origini romagnole, era un amico, la protesta finì con una bevuta e una pacca sulle spalle». «Non l’ho mai confessato a nessuno quel che ho combinato quel giorno - conclude Michelotti - e nemmeno Gimondi l’ha fatto. È stato l’unico gesto anti-sportivo della mia lunga carriera. Ma era sacrosanto, un atto di giusta riparazione, un aiutino a un campione che stava strameritando la sua prima vittoria al Giro». A Tirano Gimondi arriva con 4 minuti e 9 secondi di vantaggio su Anquetil e al traguardo finale di Milano vince la Corsa Rosa con 3’36 su Franco Balmamion e 3’45 sul francese. Oggi, a quasi 50 anni di distanza, il campione che è stato tra i pochi al mondo a saper vincere tutte e tre le grandi corse a tappe (Giro, Tour e Vuelta), vincitore del campionato del mondo nel 1973 e di numerose classiche, nonostante la concorrenza in quegli anni del “cannibale”, Eddy Merckx, ricorda benissimo quei giorni e quel Giro. E non smentisce la ricostruzione di Michelotti, che ricorda con grande affetto e stima: «Era un grande, un organizzatore nato, un duro che sapeva ascoltare i corridori e imporre le regole giuste in corsa. Le faccio solo un esempio delle sue capacità. In una ricognizione lungo un percorso trovammo delle gallerie non illuminate, molto pericolose. Andammo dalla direzione a lamentarci. Il giorno dopo, in corsa, Michelotti aveva schierato in quelle gallerie i motociclisti con i fari accesi per illuminarle e renderle sicure». Sulla tappa delle Tre Cime, dice: «Sì, ci furono molte spinte. Qualche manata l’avevo presa anch’io, ma fui tra i più “puliti”. Per questo mi arrabbiai così tanto». E di quella che lo vide trionfatore a Tirano, racconta: «Quel giorno ero deciso a riprendermi la maglia. Partii una prima volta sui tornanti del Tonale, dove riuscii a staccare Anquetil. Poi, nella discesa verso Ponte di Legno, Jacques stava per rientrare. In fondo c’era il rifornimento. Io lo saltai e questo fece la differenza. Ripresi un po’ di vantaggio, continuai ad attaccare, lo staccai di nuovo. Forse sfruttando anche qualche scia. Capita a tutti i corridori di farlo. Ma dopo la discesa e il piano c’era l’Aprica. E lì non contano le scie, non c’è aiutino che conti: ci vogliono le gambe. Il mio successo l’ho costruito su quelle rampe. E al traguardo sono arrivato con più di 4 minuti di vantaggio su Anquetil». Così andarono le cose. Vinse il migliore. Con l’aiuto di Michelotti, il “duro ma giusto” degli anni d’oro del nostro ciclismo.
un bel pezzo sulla storia del Giro. Mi aspettavo che l'autore fosse il "vecchio" Figini, ma la sorpresa è stata quando ho letto la firma di Claudio Visani al quale faccio i complimenti per aver avuto la confidenza da Michellotti e essere riuscito a conservare il "segreto". Allora si parlò di "SANTA ALLEANZA" contro il francese e in effetti nella tappa con arrivo a Tirano nessuno degli italiani in gruppetto con Anquetil mise fuori il naso per dare una mano al bretone. Anche Michelotti quindi abbiamo appurato che fece parte della SANTA ALLEANZA. Zavoli lo aveva sospettato ma anche lui credo fosse contento di come era andata a finire la corsa. Tornado a Figini, adesso pensandoci bene, forse anche lui sapeva di questo fatto, ma la sua priverbiale riservatezza gli ha impedito di parlarne finchè i protagonisti di allora fossero ancora vivi. E che dire di Franco Balmamion, che, carte alla mano, avrebbe nel carniere un terzo Giro d'Italia, anche stavolta senza vincere una tappa?....
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