L'avvocato Cecconi: «Altro che magistratura italiana...»

| 26/07/2006 | 00:00
In un antico codice di comportamento per samurai, ai quali veniva richiesta la massima lucidità anche in situazioni apparentemente insostenibili, si trova un appunto che riguarda l’arte dell’eloquenza legata al rispetto per l’autorità: “Se avete qualcosa da dire è bene che lo facciate subito, sin dall’inizio della conversazione. Se lo fate dopo sembrerà un cavillo”. Il modernissimo regolamento etico del Pro Tour non lascia possibilità di contraddittorio immediato; foss’anche sulla sola radice di rumori giornalistici, ciascuna squadra ha diritto di applicare la sospensione cautelare. Bjarne Riis, team manager della Csc, non ha nemmeno tentato di credere a Ivan Basso e lo ha freddato con un “e adesso pensi a difendersi”. Se la parola d’onore non viene accolta fino a prova contraria, l’unica alternativa diventano davvero i cavilli legali; abbiamo chiesto lumi a Federico Cecconi, autentico principe del foro. Avvocato Cecconi, che idea si è fatto dell’intera Operacion Puerto? “Abbiamo spesso criticato il modo di operare di alcuni magistrati italiani, ma quello che è successo in Spagna è decisamente peggio: l’inchiesta è ancora in corso, ma nel frattempo non si è persa l’occasione di cavalcare l’onda del sensazionalismo colpendo coloro che sarebbero stati sicuri protagonisti del Tour de France. La giustizia sportiva può essere rapida, ma non sommaria. Finora non esiste alcun crisma di affidabilità della prima, parziale relazione comunicata dagli inquirenti spagnoli che si stanno occupando della condotta del dottor Eufemiano Fuentes; ci sono altre persone, oltre ai 58 nomi già pubblicati, che rischiano di essere segnalate dopo il Tour o addirittura a stagione finita, dunque senza danno. Ricordiamoci di coloro che hanno avuto piena assoluzione da ogni accusa anche in inchiesta clamorose come quella di Sanremo nel 2001; non esistono risarcimenti per gli atleti innocenti cui è stato a lungo impedito di svolgere il proprio lavoro, senza calcolare la rovina dell’immagine provocata dai processi mediatici. Stavolta l’Uci avrebbe dovuto imporsi, comunicando i risultati delle indagini della Guardia Civil agli organi disciplinari delle singole federazioni e lasciando gareggiare i corridori finché a loro carico non venisse istruito un regolare procedimento. Questa è la logica del diritto”. Ha citato l’inchiesta del 2001; già allora compariva nei verbali Yolanda Fuentes, sorella di Eufemiano e medico sociale della Kelme. Possibile che la dottoressa, attualmente inquisita sulla base di intercettazioni telefoniche inequivocabili, avesse mantenuto l’abilitazione ad esercitare la professione e abbia dunque potuto assistere i corridori del team Comunidad Valenciana? “Nell’ambito dell’inchiesta di Sanremo ho curato la difesa della Kelme e della Banesto; le accuse mosse alla signora Fuentes furono archiviate, non ci fu alcun processo. Il presunto reato riguardava la caffeina, sostanza peraltro depenalizzata. Certo che, se ora la situazione è differente, sarà il caso di imputare responsabilità”. Passiamo ai corridori: persino Voigt ha invocato la creazione di una banca del DNA. Perché si teme tanto un test che potrebbe evitare lunghi e penosi calvari? “Da legale devo dire che è assai lodevole proporsi volontariamente all’esame, ma l’onere della prova spetta all’accusa in ogni ambito disciplinare ad eccezione della materia tributaria, vale a dire quando l’accusato debba certificare l’effettività della residenza. Non è corretta l’impostazione per cui si presume che chi rifiuti di sottoporsi all’esame del DNA sia automaticamente colpevole. Le prove di natura induttiva, come sono allo stato attuale quelle dell’Operacion Puerto, non sono sufficienti a giustificare una sospensione cautelare”. Cosa accadrebbe se si collegassero ai reali proprietari, senza ombra di dubbio, i codici rinvenuti sulle sacche di sangue conservate nella clinica di Eufemiano Fuentes? “Anche se le sacche venissero ricondotte a singole persone, per la giustizia italiana non sarebbe sufficiente al fine di formulare una condanna. Per gli atleti, l’intenzione non è ancora colpevolezza; per i medici è ovviamente diverso. Facendo una metafora, chi tiene una pistola sotto il cuscino non è necessariamente un omicida. L’articolo 9 della legge 376/2000 cita “chi assume sostanze farmacologicamente attive o si sottopone a pratiche di autoemotrasfusione”: l’illecito, quindi, si ha nel momento dell’effettivo consumo di farmaci proibiti o della reimmissione del sangue precedentemente prelevato all’atleta e arricchito”. Se nella propria coscienza un corridore sapesse di essersi dopato ma continuasse a proclamarsi innocente, secondo lei non sarebbe un atteggiamento controproducente? I castelli di carte crollano... “Nessuno è obbligato ad autoaccusarsi. Il Coni prevede l’istituto della collaborazione, ma è ancora molto discrezionale e sicuramente da perfezionare; forse sarebbe opportuno inserire il patteggiamento, come nella giustizia penale, il che permetterebbe di limitare considerevolmente eventuali sanzioni. Si deve sempre offrire una seconda opportunità, ma se avvenisse una successiva trasgressione sarebbe auspicabile la revoca della licenza”. Gli scandali e le tragedie connessi al doping non hanno insegnato qualcosa agli sportivi? “Sono di certo serviti per riorganizzare il sistema di controllo, che adesso esiste ma deve essere ulteriormente migliorato perché sussistano le condizioni di garanzia”. (di Sara Bordoni, tratto da "La Provincia di Varese", 21 luglio 2006)
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