ARRRU, IL SARDO CHE FA SOGNARE

PROFESSIONISTI | 25/06/2014 | 07:28
Hurrà Arrru! Con tre erre, co­me piace a lui, come piaceva ad Anita Ti­roni, la sua presidentessa alla Palazzago, che così lo chiamava e troppo prematuramente ci ha lasciato. Tre erre, come piace anche ai suoi tifosi, a quella Sar­degna che di corridori ne ha avuti davvero pochini e torna a sognare come all’epoca del Cagliari di Gigi Riva, rom­bo di tuono, in quei fantastici Anni Settanta.
Fabio Aru non è un bomber, ma in bicicletta, quando scatta e spalanca le fauci, divora la strada in un sol boccone, sembra che prenda a calci la bicicletta, tanto è la sua foga, la sua voglia di arrivare fin su in cima. Ha fame, ma non insegue la fama «quella al massimo vien da sé…», dice lui con quella sua parlata franca e a scatti, tipica di chi parla il suo idioma.
Al Giro c’era venuto per studiare ancora un po’. Non si era portato nessun libro, se non un Garibaldi - la guida del Giro - e un insegnante di sostegno o meglio, un tutor: Michele Scarponi. Poi la strada ha tolto di mezzo ben presto lo sfortunato corridore marchigiano e lui, il pupo di casa Astana, si è trovato a recitare il ruolo di attore protagonista quando voleva fare al massimo da comparsa.
«Ma Beppe (Martinelli, ndr) non mi ha mai messo pressioni. Mi ha sempre det­to: “Fai quello che ti viene. Cerca di dare il massimo senza strafare…”».
Nelle intenzioni della vigilia doveva provare ad arrivare nei dieci. Un anno fa, al primo Giro, aveva chiuso in crescendo in 47a posizione, a causa di qualche acciacco fisico che l’aveva mes­so KO nella seconda settimana. Poi il quinto posto nella tappa delle Tre Cime di Vincenzo Nibali aveva confermato il talento di questo giovanotto: non si arriva sulle Tre Cime, dopo un Giro durissimo, con i migliori se non si hanno dei numeri.

DA VILLACIDRO.
«Sono nato 23 anni fa a Villacidro, a 10 chilometri da casa. Ma sono cresciuto a San Gavino Monreale, 50 chilometri da Cagliari, nel Medio-Campidano. Papà Alessan­dro fa l’agricoltore: coltiva pesche, aran­ce, mandarini. Mamma Antonella insegna alla scuola materna. Mio fratello Matteo, 18 anni, fa il liceo classico».
«Se mi sento Sardo? Fino al midollo. A casa parliamo il dialetto, che è una vera lingua, come il latino o il greco. “Ita se fadendu?” vuol dire “Che cosa stai facendo?”. “Ollu fai bei” è “Voglio fare bene”. La mia casa è a 40 chilometri dal mare, ma sono un isolano. Ho il mare nei geni. Mi piace la pesca: alla spigola, soprattutto».
«Per la bicicletta devo stare molto at­tento al mio regime alimentare. Io adoro mangiare, ma non posso fare paz­zie. Il mio piatto preferito? Il porceddu al mirto, servito su un vassoio di sughero. La carne arrosto: maiale, capretto e agnello su tutto. Dolci? Amo le sebadas, a base di miele».
«Mi è sempre piaciuto praticare tanto lo sport. Più che seguirlo ho sempre preferito farlo. Ho giocato fino a 15 anni a tennis, ma con scarsi risultati. Da 15 a 18 anni ho fatto tanta mountain-bike e tantissimo ciclocross. Sono venuto tardi al ciclismo. Ho fatto il Giro di Lunigiana da junior. Poi ho iniziato da Under 23 con Olivano Lo­catelli, che mi ha insegnato ad allenarmi, ad essere competitivo».
«Ho conseguito il diploma al Liceo Classico. Il mio motto è di Orazio: “Carpe diem”, “Cogli l’attimo”. Al Giro l’ho colto. Ma amo molto anche “Panta Rei”, tutto scorre. Quello che è stato è stato, ora si pensa a quello che verrà, per cogliere un altro momento magico».
«Io sono arrivato al ciclismo su strada piuttosto tardi. Non mi sono certamente spolmonato. Ho solo pensato a divertirmi e anche Olivano Locatelli, il mio tecnico tra gli under 23 non ha mai voluto spremermi più di tanto. Ancora oggi non corro tantissimo. Al Giro, quest’anno, mi sono presentato con 13 giorni di gara nelle gambe, meno di tutti. Ma è da novembre che mi alleno ogni giorno con l’obiettivo del Giro. Non ho perso un giorno. Ho fatto tre stage in quota. Due sul Teide: prima 17, poi 14 giorni. E, dopo il Giro del Trentino, sono stato 10 giorni al Sestriere fino alla vigilia del Giro. Bisogna avere birra nell’ultima settimana».
«Credo in Dio e prima di prendere il via di una corsa mi faccio sempre il segno della croce ma non si tratta di un gesto scaramantico. Quando posso vado a Messa la domenica. Credo nella cultura. L’ultimo libro che ho letto è l’autobiografia di Djokovic. Ma amo anche tantissimo i romanzi di Giuseppe Dessì, un sardo».
«Se sono felice? Molto. Faccio il lavoro che più amo. Ho conseguito un grande risultato e lo sto condividendo con le persone più care che ho. E poi da qualche mese ho lei, Valentina, 24 anni di Torino, che mi ha dato tranquillità e gioia».

MONTECAMPIONE. Su in cima al Plan monta un campione. È lì, dove prima di lui seppero vincere Hinault e Pantani, che l’Italia scopre Fabio Aru. Uno scatto a 3200 metri dall’arrivo di Plan di Montecampione, la salita bresciana sulla quale Marco Pantani vinse il Giro 1998, e gli resiste solo la maglia rosa Uran. Un altro ai 2100 metri, e Aru entra nella storia del Giro.
«Dopo le gallerie, dopo le gallerie», gridava nella radiolina Beppe Marti­nelli, che quel giorno deve aver avuto un tumulto di emozioni, per quel ragazzo di sessanta chili distribuiti su centoottantun centimetri di altezza. Rispetto a Pantani Aru è un corridore più potente. È uno scalatore moderno, che non va male neanche a cronometro.
«Dopo le gallerie» vuol dire 3200 metri dall’arrivo, pendenza del 10%, tornante a sinistra. Pantani, nel 1998, riuscì a distanziare l’ombra ingombrante di Pavel Tonkov, in un duello decisivo che è rimasto nella storia.
Aru riscrive la storia, mai nessun sardo era arrivato così in alto. Sul traguardo bresciano infligge distacchi pesanti: 22” a Quintana, 42” al leader Uran, 57” a Majka, 1’13” a Evans, Kel­derman e Pozzovivo. In classifica, Uran mantiene 1’03” su Evans, 1’50” su Majka: Aru è quarto a 2’24”, Quintana a 2’40, Pozzovivo a 2’42”.

VOLA CON I PIEDI A TERRA. «Non cambia assolutamente nulla. Ho ancora tutto da dimostrare», dice al termine di quella sua fantastica giornata. «Non mi sento un leader. Non è che non creda nei miei mezzi, ma mi piace stare con i piedi a terra. È già un’emozione correre con Quintana e Uran. Provo un brivido quando riesco a rimanere con loro in salita. Quando, poi, a tre chilometri dal traguardo, sono andato via e poi sono rimasto solo, ero incredulo. Ho provato per tre volte. Quando mi sono trovato solo in testa, non sapevo se sarei stato capace di tenere fino al traguardo. Ma ancora oggo io penso solo ad imparare dalle persone che mi stanno attorno: Martinelli, Shefer, Tiralongo, che è il mio compagno di stanza. Il mio secondo papà e il mio grande punto di riferimento. Il mio modello di corridore? Ammiro tanto Contador, che è un grandissimo campione. Ma cerco di osservare tutti con attenzione. Da tutti c’è qualcosa da imparare».

CIMA GRAPPA. «Questa salita l’ho fatta la prima volta al primo anno da under 23. Sono scattato al primo tornante e mi hanno ripreso a pochi metri dal traguardo: sono arrivato terzo. Il secondo anno ancora terzo, il terzo anno finalmente ho vinto. Adesso questa bella prestazione. Il Grappa è la mia salita».
Così, sereno come sempre, Fabio Aru racconta a caldo, con la calma dei forti la sua strepitosa cronoscalata, e qualche giorno dopo, a bocce ferme, non ha problemi a dire: «Quando ho visto che avevo il miglior tempo ho accarezzato il sogno. Poi Quintana ha vinto, ma per una volta non mi sono davvero sentito uno sconfitto, perché ho visto che ho davvero disputato una grandissima cronometro. Il mio segreto? Il lavoro. Solo tanto impegno, tanta passione e molto lavoro fatto da novembre per arrivare preparato all’appuntamento. Mi sono allenato duramente e mi sono concesso pochissimi stravizi. Ho fatto fino in fondo la vita del corridore».

LO STELVIO.
«Quel giorno di casino ce n’è stato davvero tanto. Forse ha ragione Vincenzo (Nibali, ndr), che ho sentito subito alla sera e mi ha detto chiaramente che anch’io ho sbagliato a non buttarmi in discesa dallo Stelvio, che non dovevo mai perdere di vista Quintana e Uran. È un’esperienza che mi servirà».

LO ZONCOLAN. Aveva a portata di mano il secondo posto nella generale. Aveva a portata di mano Rigoberto Uran, ma dopo le fatiche di Cima Grappa bisogna anche fare i conti con le energie che restano nelle gambe. Il terreno di battaglia è di quelli che non lasciano scampo: lo Zoncolan. Lì c’è poco da fare tattica o melina. O si va o non si va. Per far saltare Uran c’è da pedalare forte, il più forte possibile e poi sperare che il colombiano salti per aria. Non sarà così. Alla fine, dopo tanta euforia, una piccola doccia fredda. Fabio Aru in cima allo Zoncolan perde anziché guadagnare. Ci arriva con 16 secondi di ritardo, sia da Quintana, che da Uran. Lui, dopo la grande fatica, si pulisce il viso e con i suoi bei dentoni bianchi e l’aria soddistatta dice al mondo intero: «Va bene così».
E certo che va bene così. Va molto bene a tutti, non solo a lui. D’altra parte bisogna essere anche un po’ realisti, il secondo posto sarebbe stato fantastico ma il terzo è tutt’altro che da buttare via. Alla luce anche di come è stato difeso. Ad un certo punto il ragazzo dell’Astana era in evidente difficoltà e il francese Rolland un pensierino al podio lo stava coltivando ancora. Non stava bene, ma sembrava in grado di mettere in croce il ragazzo di Villacidro, che invece ha messo in mostra anche una grande lucidità in una fase non buonissima della gara.
«Quel giorno ho sofferto davvero tanto. Quella per me, ma credo non solo per il sottoscritto, è stata davvero una tappa molto dura perché siamo partiti fortissimo e abbiamo finito ancora più forte. Però mi sono piaciuto tanto. Non dico come a Montecam­pio­ne e a Cima Grappa, ma quasi. Perché, come mi ripete ancora oggi Olivano Locatelli, i corridori si vedono quando non stanno bene. Quando non sono in giornata. È lì che mostrano il loro livello di forza, di tenacia, di determinazione e di classe. Io penso di aver medicato la situazione egregiamente. Qual­cuno ha anche detto e scritto che ho sbagliato i rapporti, che ero troppo duro. Non sono per niente d’accordo. Avevo il 34x29, i rapporti erano giusti. Però nelle corse ci sono momenti in cui non riesci ad andare come vorresti, per gli avversari, per la fatica accumulata in tre settimane di corsa e per la strada che non è una strada comune alle altre, perché lo Zoncolan è davvero qualcosa di tremendo. È vero, non sono riuscito a fare la frequenza che mi sarebbe piaciuto fare, ma i rapporti non c’entrano assolutamente niente».

FORZA DELLA TRANQUILLITA’. A Belfast, Aru è partito come un corridore di belle speranze. Uno dei tanti volti del ciclismo italiano che potevano fare bene. Alla fine si palesa al mondo con una bellissima vittoria di tappa, un Giro corso con coraggio e continuità e un podio che per il ragazzo di Martinelli equivale ad un importante esame di laurea.
«Sono felice. Lo so che dovrei dire qualcosa di più gustoso e interessante ma dico quello che sto provando: sono semplicemente felice per come ho corso. Non vi nascondo che mi piace anche tanto l’affetto della gente, ma dopo Trieste per me si è chiuso un capitolo. Quello che è stato fatto è stato fatto, ora devo solo pensare a riprogrammare il mio futuro».
Il futuro prevede un po’ di riposo, e con ogni probabilità il numero sulla schiena se lo rimetterà ad agosto. Cambi di squadra, mercato? Tutte sciocchezze. Fabio è blindato, fino alla fine del 2016 con prelazione per il 17. È un corridore dell’Astana e come tale resta. Chi lo voleva, doveva prenderselo qualche anno fa. Carpe diem.

di Pier Augusto Stagi, da tuttoBICI di giugno
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COMMENTI
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26 giugno 2014 13:25 ewiwa
Un articolo bellissimo semplice ma puntuale e come sempre complimenti al Direttore

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