PROFESSIONISTI | 02/05/2014 | 08:49 Una moto. Matteo Pelucchi alla Tirreno-Adriatico ha sprintato come se avesse il motore. Sui traguardo di Cascina, con una potenza e lucidità sorprendenti, ha messo nel sacco sprinter del calibro di Greipel, Demare, Cavendish e tutti gli altri big attesi alla Corsa dei due Mari. Lui che tra moto e bici non ha dubbi e sceglie a occhi chiusi la prima, ha sgasato mettendo in scena la volata più importante della sua carriera. Nel tempo libero e rigorosamente a stagione finita, si diverte in sella ai suoi bolidi: nel cross una KTM 250 e su strada una Suzuki GSXR 750. Di lavoro fa il ciclista semplicemente perché è sempre andato forte spingendo sui pedali. «In tanti sono rimasti sorpresi dalla mia volata alla Tirreno, ma non è la prima di questo livello che riesco a firmare. Diciamo che ho un certo stile e occhio, quello che mi mancava era la vittoria in una corsa prestigiosa» ci confida il venticinquenne lecchese.
“Pelo” è arrivato al professionismo nel 2011 con la maglia della Geox TMC e quest’anno, grazie alla fiducia concessagli dalla svizzera IAM Cycling, si sta affermando a livello internazionale. Non è un corridore come tanti, né un ragazzo nella media anche se lui si definisce «un tipo normale, tranquillo». È un velocista che di salite ne ha dovute affrontare tante, troppe in soli 25 anni che si fa fatica a crederci. Il 1° giugno del 2010 la sua vita viene sconvolta dal grave incidente occorso alla sua fidanzata Marina Romoli e anche la sua carriera, quando è una promessa tra i dilettanti, sembra non potere superare il dolore. Rimonta in bici perché Marina lo spinge, o meglio lo obbliga, deve raggiungere i traguardi che lei sulla sedia a rotelle è costretta ad abbandonare, impegnata a lottare per bisogni più essenziali e per aiutare i tanti ragazzi nella sua condizione con l’associazione benefica Marina Romoli Onlus di cui Matteo è il primo testimonial.
Centra la prima vittoria nella massima categoria nella Clasica de Almeria 2011 ed è una vittoria tutta per lei; l’ultima a livello temporale (è la numero cinque tra i professionisti, ndr) che è anche la più prestigiosa finora conquistata è invece tutta per Kristof Goddaert, il suo compagno di squadra belga che ha perso la vita in allenamento travolto da un bus meno di due mesi fa. Un’altra tragedia, un’altra botta per Matteo che apprende la notizia il giorno in cui è diretto verso le Marche, per passare un paio di giorni che aveva immaginato spensierati con la sua Marina. Anche questa volta Matteo riesce a reagire al colpo e a ripartire. Perché ha un motivo in più per vincere. Disegna uno sprint perfetto. Lanciato da Haussler e Kluge fino agli 800 metri, quando tocca a lui battezza la ruota giusta, quella di Andrè Greipel, va a caccia di Demare e Sagan, ed esce allo scoperto al cartello dei -100. Al successivo dei -50 è in testa, può staccare le mani dal manubrio e, finalmente, versare lacrime di gioia.
Matteo, credi al destino? «Sai, è difficile rispondere a questa domanda. Non so se esista la buona o cattiva sorte, se tutto in fondo ha un senso ed è già scritto. So solo che questa volta, da quando ho saputo dell’improvvisa scomparsa di Kristof non ho pensato ad altro che a vincere per lui. Nelle tre settimane successive non mi sono impegnato negli allenamenti per puntare al successo personale, alla fama, ai soldi e quant’altro ma solo a lui e alla sua famiglia. Alla Tirreno è stata una delle rare occasioni in cui non ho corso per me ma per qualcun altro. Questo lutto ha segnato profondamente la nostra squadra, volevamo fare qualcosa per ricordarlo come si deve. Sono felice di esserci riuscito. Detto questo, non voglio parlare delle mie tragedie. Ognuno ha le sue, purtroppo nessuno è immune. Conta come si affrontano e, se non ti uccidono, sono convinto ti fortifichino».
Ci racconti che tipo era Kristof? «Fino a due anni fa eravamo avversari, lui correva per l’AG2R e io per la Europcar. Non lo conoscevo, ma a pelle non so perché, non mi piaceva. Non ci avevo mai parlato, si trattava di un’impressione superficiale e chiaramente sbagliata. Quando siamo diventati compagni di squadra l’ho rivalutato e l’inverno passato ci eravamo avvicinati molto. In Qatar eravamo compagni di stanza, nelle interviste diceva che non vedeva l’ora di tirarmi le volate e il suo ultimo tweet era rivolto proprio a me: “@Pelucchi_Matteo vai a letto amico, domani sarà una giornata molto importante #dohacorniche #italiansdoitbetter”. Kristof era una di quelle persone che non passano inosservate, in gruppo lo conoscevano tutti perché non è uno di quelli che se c’è o non c’è non fa differenza. Parlava sempre, a volte era simpatico, a volte rompeva le balle, ma riusciva sempre dopo le corse a distrarmi con una battuta e a farmi sorridere se non era andata bene. Un ragazzo pieno di vita, sempre al centro dell’attenzione, così vivace che se non c’era te ne accorgevi subito. Per questo mi manca un sacco e in squadra avvertiamo un vuoto incolmabile. Dopo la mia vittoria, i suoi genitori, la sorella e la signora Van Linden con cui viveva mi hanno ringraziato per la dedica. Ricevere i complimenti dalle persone che più gli erano vicine per me è stata la soddisfazione più grande».
Quella della Tirreno è stata la tua volata più bella di sempre? «Sì. Ne ho fatte di molto belle anche in precedenza e avevo già battutto velocisti importanti come Greipel ma finora avevo raccolto tanti piazzamenti, mentre questa volta lo sprint è valso il primo posto. Il finale è stato molto confuso, non c’era una squadra-guida che pilotasse la volata. Nel giro precedente avevo notato che c’era un po’ di vento contrario, così ho deciso di restare al coperto. Ai -500 ero un po’ indietro, poi ho recuperato la ruota del campione tedesco e ai 200 metri mi sono lanciato. Non pensavo di vincere, mi sono stupito io per primo di quanto sono riuscito a fare. Lì per lì ho fatto fatica a realizzare il tutto, ora sono contento e orgoglioso. Riguardando i file della prestazione ho visto che ho sprigionato quasi 1.600 watt. Non è il mio record assoluto, ma per una volata a fine corsa non è niente male».
Dopo la Tirreno, hai preso parte alla Milano-Sanremo. «Prima della vittoria alla Tirreno avevo il 90% di possibilità di non farla, ma questo successo è stata un’iniezione di fiducia incredibile. La squadra ha deciso di schierarmi all’ultimo momento, per lavorare in favore di Chavanel e Haussler e capire fin dove posso reggere per il futuro. La Sanremo è lunga e dura nel finale, l’avevo provata solo al mio primo anno, ma mi affascina da sempre. Per ogni corridore italiano è la corsa dei sogni, io non faccio eccezione. Sono migliorato molto in salita rispetto agli anni passati, ma so di dover crescere ancora molto per poter pensare di lottare coi migliori dopo 300 chilometri. Non sono ancora pronto per ambire al risultato pieno, devo macinarne tanti di chilometri ma un giorno vorrei partire come leader».
Niente Giro d'Italia... «Purtroppo non siamo stati invitati. Spero che la Iam Cycling ottenga la wild card per la Vuelta a España, così potrei finalmente debuttare in un grande giro. Mi mancano l’emozione e la fatica di una corsa di tre settimane».
Chi ti ha trasmesso la passione per il ciclismo? «In famiglia nessuno ha mai amato particolarmente questo sport, da piccolino papà mi mise in bici dicendomi: “prima impari ad andare in bici, poi impari ad andare in moto”. Il suo obiettivo e la mia volontà erano di correre sì sulle due ruote, ma a motore. Il motociclismo però costava parecchio e col tempo la bici mi ha affascinato sempre di più, tanto che non l’ho più lasciata. Il mio vicino di casa Enzo Fumagalli mi ha visto andare in bici ed è rimasto impressionato perché per la mia età ero un funambolo. Mi ha convinto a tesserarmi all’UC Costamasnaga e da lì è iniziata la mia avventura».
La tua prima gara? «Da G2, a otto anni, su una piccola biciclettina rossa della società. Alla prime corse continuavo a piazzarmi terzo, poi mi hanno spiegato come si cambiava rapporto (prima correvo sempre con lo stesso) ed è iniziata ad arrivare anche qualche vittoria. Il ciclismo è come una malattia, quando entri in questo mondo non ne esci più».
Come andavi a scuola? «In moto! A parte gli scherzi, sono diplomato geometra ma ho sempre fatto il minimo indispensabile. Quando arrivava un’insufficienza mi impegnavo per portare a casa un 7 e tornare alla mia media standard del 6. I professori non apprezzavano molto la mia tecnica. Diciamo che sui banchi mi comportavo come in sella quando ci sono in programma delle tappe dure: “vado a risparmio” preoccupandomi solo di arrivare nel tempo massimo (sorride, ndr)».
Un tuo campione di riferimento? «Valentino Rossi perché è Valentino Rossi: per quello che ha fatto a livello sportivo e per la cattiveria agonistica che continua ad avere nonostante abbia vinto tutto. Solo i campioni sanno mettersi sempre in gioco, intraprendono senza paura nuove sfide e scommettono su se stessi. Ho avuto modo di vederlo al rally di Monza, ma non ho ancora avuto l’occasione di conoscerlo, anche se guardando tutte le gare di moto GP alla tv mi sembra quasi uno di famiglia. È un bell’esempio da seguire».
Chi ti supporta nella tua professione? «Marina mi sta molto vicino, come ovviamente i miei genitori Sabrina e Filippo, oltre a mia sorella maggiore Elisa. Poi gli amici di sempre, quelli di una vita, i più conosciuti proprio grazie al ciclismo come quelli con cui mi alleno di solito, vale a dire Giacomo Nizzolo, Samuele Conti, Christian Delle Stelle, Daniele Colli e gli altri ciclisti brianzoli. Da un anno ormai vivo a Chiasso, ma il gruppetto con cui esco è sempre lo stesso, mi tocca percorrere solo una ventina di chilometri in più rispetto a quando vivevo a Rogeno (LC) con mamma e papà».
Cosa provi quando sei in volata? «Lo sprint, oltre che una sfida di forza, è un duello di abilità, scaltrezza, prontezza e chi più ne ha più ne metta. La vivo in maniera diversa in base a come mi sento: se sto bene, sono lucido per decidere che traiettoria prendere, se invece sono in giornata no la subisco e mi faccio trascinare dal gruppo, il che non è il massimo. È affascinante, ma non semplice. Confesso che quando guardo una gara da spettatore ho paura, tremo e ho il cuore in gola, quando rivedo una corsa a cui ho preso parte mi spavento vedendo quanto andavamo forte, quanto eravamo vicini e penso “siamo dei pazzi”. Quando sono in gara è tutto un altro discorso: non mi accorgo nemmeno dei rischi che prendo, quando è il momento di giocarsi tutto “spengo il cervello” e lo riaccendo dopo l’arrivo. In genere riesco ad essere abbastanza calcolatore, ma nei chilometri finali mi faccio guidare dalla trance agonistica, se ragionassi troppo non mi “butterei” come faccio. Credo sia così per tutti i velocisti, non solo per me».
L’anno prossimo difenderai ancora i colori della IAM? «Il mio contratto è in scadenza, ma la squadra mi ha già fatto sapere che vorrebbe confermarmi. Dopo il successo alla Tirreno-Adriatico so che qualche altro team ha dimostrato interesse nei miei confronti, ma per ora non c’è nulla di concreto quindi non voglio sprecare energie a pensarci. È ancora presto, in fondo siamo solo a inizio anno».
Un sogno per il tuo futuro agonistico? «Ho fatto un pensierino al mondiale del 2016 in Qatar, che è completamente piatto. Mi piacerebbe davvero tanto ritornare a indossare la maglia azzurra che ho difeso più volte nelle categorie giovanili. Lavoro anche per questo, è un mio obiettivo. Mi ha fatto molto piacere ricevere i complimenti da parte del CT Cassani (che per l’occasione ha twittato: “Mai avrei pensato che la vittoria di un italiano mi facesse un così grande effetto rispetto a quando le gare le raccontavo. Bravo Pelucchi”, ndr) che reputo uno degli uomini più competenti nel nostro ambiente. D’altronde, con tutti gli anni passati a fare il telecronista in RAI, ha seguito più corse lui di tutti i ds in circolazione».
A proposito di Cassani, quest’inverno hai frequentato il Bici-Lab di Ottobiano (PV) nella Pista South Milano che porta il suo nome. «Sì, devo ringraziare Marco Gatti per avermi invitato a svolgere un test riguardante la postura in sella e per la gentilezza dimostrata nei miei confronti. In realtà non abbiamo apportato grandi modifiche alle misure della mia bici, si tratta di accorgimenti minimi (nello specifico ho avanzato di 1 mm le tacchette rispetto ai miei assi metatarsali per avere una leva leggermente più lunga in fase di spinta), ma è confortante avere conferma da un centro qualificato che spingo bene sui pedali e non disperdo energia a causa di una postura scorretta». In quanto a preparazione hai cambiato qualcosa rispetto al passato? «Molto, in termini di qualità: in inverno ho macinato tanti chilometri con il ds Albasini, a novembre al ritiro di Maiorca ho conosciuto la nuova dietologa del team che mi ha aiutato tanto. Grazie ai suoi suggerimenti ho perso peso, o meglio, grasso. A gennaio la plicometria indicava 10% di grasso corporeo, ora sono sceso a 7%. Inoltre sto facendo molta più attenzione a quello che mangio e bevo, a come gestire il recupero e il riposo, piccole cose che fanno la differenza. Per fare un salto di livello dovevo impegnarmi ancora più a fondo, non mi sono tirato indietro e la differenza si è vista. Ho fatto tanta fatica, ma i risultati mi stanno dando ragione».
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