Boifava: «Questo ciclismo non è grande, è solo gonfio»

PROFESSIONISTI | 16/04/2014 | 08:15
«Certo che seguo il ciclismo, lo seguo e cerco di dare anche una mano, soprattutto ai ragazzi del Nuvolento e ai giovani della mia zona. Come faccio a sollevare il piede dall’acceleratore della passione? Il ciclismo è il ciclismo, ma qualcosa non va, mi sembra evidente. Ma altrettanto evidente è il magma nel quale si trova il nostro movimento. Sono molto preoccupato e dobbiamo dirlo a chiare lettere, con  tutto il rispetto possibile, ma così non si può andare avanti».

Davide Boifava parla con assoluta tranquillità. Parole leggere che escono quasi impercettibili, ma pensano come macigni. Non è propriamente una voce qualsiasi. Davide Boifava oggi è il signor Podium, quello delle biciclette Carrera di Calcinato e di Marco Pantani. È stato un buon ciclista professionista dal 1969 al 1978. Due tappe al Giro e un giorno in maglia rosa, con un discreto 15° posto finale al Giro. Poi il Giro del Lussemburgo, un terzo posto al Gran Premio delle Nazioni e al trofeo Baracchi. Poi un Trofeo Matteotti e un Giro di Romagna, oltre ad altri tre podi nel Trofeo Baracchi. Ma le soddisfazioni migliori le ebbe da direttore sportivo, con la sua Carrera. Guidò Roberto Visentini alla conquista di un Giro d'Italia e Giovanni Battaglin sul gradino più alto del Giro e di una Vuelta a España. Mentre con Stephen Roche ottenne un fantastico «triplete» nello stesso anno: Giro, Tour e mondiale.

«Questo ciclismo è troppo sovradimensionato e sovrastimato. Ha troppe corse, troppi corridori e costi eccessivi per quello che dà di ritorno. Il momento è delicato, ma aziende interessate ce ne sarebbero anche, ma il costo di corridori appena appena buoni sono eccessivi. Ti dico solo che la mia Carrera riuscivo a farla con un budget di 4 milioni e mezzo di vecchie lire. Oggi, con una cifra simile, fatichi a fare il secondo nome».

Cosa si può fare?
«Il discorso è lungo e complesso e francamente neanche io ho la ricetta. Ma di una cosa sono certo: così non si può andare avanti. Invece nessuno fa una piega. Tutti fanno la faccia di chi è soddisfatto: vanti così. Ma tra un po’ ci si fa male. Anzi, con la riforma del ciclismo, per noi italiani, la situazione peggiorerà ulteriormente e mi sembra che nessuno però cerchi di dire qualcosa».

Cosa pensa di questo inizio di stagione del ciclismo italiano?
«Alla Sanremo siamo andati anche benino: Colbrelli, Modolo, Battaglin mi sembrano ragazzi che possono soltanto crescere e fare bene. Mancano quelli che dovrebbero esserci. Quelli di esperienza che però probabilmente hanno fatto il loro tempo. Al Fiandre e alla Roubaix non ho proprio visto nessuno. Filippo Pozzato avrebbe le doti e i numeri per arrivare almeno con i migliori, invece non c’è nel modo più assoluto. Non so le ragioni, ma nella posizione in cui sono non posso fare altro che prenderne atto».

Se fosse nei panni di Cassani, un suo ex corridore, cosa farebbe?
«Punterei solo e soltanto sui giovani. I cosiddetti vecchi non hanno più niente da dire, tanto vale investire sui ragazzi pesantemente. Non fanno risultati? Sono giovani, nessuno farà processi».

Cosa ricorda del Boifava giovane?
«Tutto. La fame, la voglia di arrivare. Giorgio Albani che mi ha insegnato tutto, proprio tutto. L’amore per la bicicletta e la gioia di poter costruire la casa ai miei genitori con il sudore della mia fronte ma anche della passione. Ricordo quando dissi ad Albani: “datemi 30 mila lire al mese e continuo a correre, altrimenti vado a fare l’operaio”. Lui capì e mi ingaggiò alla IAG (Industria Alimentare Gazoldo), società satellite della Molteni, squadra nella quale approdai da professionista l'anno dopo. Ricordo che con 15 milioni comprai il primo terreno e dopo il Giro del Lussemburgo da me vinto il signor Molteni mi invitò a casa sua e ad un certo punto mi infilò nel taschino della giacca un assegno. Lo ringraziai facendo finta di nulla e poi con una scusa andai in bagno e scoprii che quell’assegno era da un milione. Gridai: e vaaaiii!».

Poi divenne direttore sportivo, tanti corridori.  Uno su tutti: Visentini.
«Talento purissimo, ma anche complicato. Il più complicato di tutti. Poteva vincere molto di più, forse tutto, ma aveva una testa e un carattere particolare».

E Giovanni Battaglin...
«Grande, grandissimo, solo troppo fragile. Ma che classe».

Poi arrivò Roche…
«E vinse tanto, tutto, in una sola volta. Durò come le rose».

Poi venne Chiappucci…
«E ottenne tutto quello che poteva ottenere: Claudio ha sempre dato il massimo»

E infine Pantani.
«Il più grande. Poteva anche non allenarsi e andava più forte degli altri. Altro che balle».

A proposito di balle: cose le dà più fastidio?
«Passare, io e quelli come me, per quelli che hanno fatto grande il ciclismo degli anni Ottanta e Novanta come dei dilettanti allo sbaraglio, Non è così. Noi questo sport l’abbiamo fatto grande con piccole squadre molto ben organizzate. Piccoli team e grandi corridori per grandi platee e grandi sponsor. Oggi mi sembra che si sia grande solo all’apparenza. Più  che grande mi sembra un movimento gonfio. Tutto è polverizzato: troppe gare, troppi corridori, pochi campioni. Nessun personaggio».

Pier Augusto Stagi, direttore di tuttoBICI, tuttobiciweb.it e tuttobicitech.it

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COMMENTI
bravo
16 aprile 2014 09:26 geo
Bella intervista e begli argomenti! Complimenti!

però
16 aprile 2014 10:46 geo
qualcosa non mi torna: mi risulta che il 70% dei corridori corrano col minimo di stipendio e molti di essi paghino per correre, ed altri pure corrano gratis... voci dell'ambiente.

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