Rui Costa alle prese con la macchina fotografica di Roberto Bettini
Un primo piano intenso
Rui Costa con Emanuele (sx) e Sergio Galbusera
PROFESSIONISTI | 03/02/2014 | 08:55 Alberto Rui Costa non avrebbe dovuto essere un ciclista. Avrebbe dovuto essere un atleta, quello senz’altro, alto e magro, con quegli occhi da gatto tanto aggressivi da uccidere con un solo sguardo chiunque osasse sfidarlo. Ma all’età di undici anni suo padre lo convinse a scoprire la bicicletta, gli assicurò che gli sarebbe piaciuto, insistette con forza. Gli disse che se ne sarebbe innamorato. E successe esattamente così, con Rui puntualmente innamorato delle due ruote.
La sua ascesa nel ciclismo è stata folgorante: a 20 era già professionista con il Team Benfica e due anni dopo approdava nel ProTour con la Caisse d’Epargne. Per quanto veloce sia stata, una storia di passione non lo è fino in fondo senza che si provi dolore e sofferenza. Le storie d’amore più belle e vibranti, o almeno le più lette e più appassionanti, sono così e non diventano memorabili se non passano attraverso un cuore spezzato in mille frantumi lungo la loro strada. Proprio come sono le storie cantate dal fado, la musica simbolo del Portogallo. Canzoni di lacrime e dolore. Il dolore che si prova su un ring di pugilato, per esempio. Il dolore dei pugni. Carlos Barredo e Rui Costa si sono sfidati in una battaglia campale al traguardo della settima tappa del Tour de France del 2010, potendo si sarebbero perfino scagliati dietro le ruote l’uno contro l’altro. Due settimane più tardi festeggiavano insieme la fine del Tour nella notte parigina. L’odio. E poi l’amore.
Il dolore può anche essere incomprensibile quanto ingiusto. Come quello che Rui provò quando una barretta energetica ha rischiato di interrompere la sua promettente carriera ciclistica. È accaduto tre anni fa quando, qualche settimana dopo il campionato nazionale a cronometro da lui vinto, l’UCI gli riscontrò una positività per uno strano stimolante, la metilexaneamina, che non appariva tra gli ingredienti dichiarati di alcun prodotto che aveva ingerito. Eusebio Unzue lo allontanò dalla squadra e non voleva saperne di riprenderlo con sé, anche perché lo riteneva troppo individualista ed egoista per militare in una squadra come la sua, la cui vera forza è l’unione. Ma Rui insistette, spinto dall’orgoglio e dalla consapevolezza di essere innocente. Un’innocenza che è riuscito a dimostrare, facendo analizzare una di quelle barrette e scoprendo che era contaminata. Così è riuscito a vedersi ridurre la pena a cinque mesi, anche se quella macchia gli resterà addosso per sempre. Così è nel ciclismo, il passato non si cancella, il dolore che hai provato riappare puntualmente ogni volta che qualcuno ti ricorda da dove vieni.
Il dolore di un processo pubblico. È il Rui di Gap, quello allegro e in lacrime sul traguardo del Tour 2013, la sua prima vittoria di tappa nella corsa di tre settimane per eccellenza prima di ripetersi a Le Grand Bornand, nella sedicesima tappa, al quale continuavano a chiedere la stessa cosa. È il Rui che camminava avanti e indietro per la zona mista, piena di giornalisti armati di microfono come aquile che volano libere e puntano la loro preda. La gente gridava e lo chiamava «Rui, Rui, siamo qui, vieni quiii!!!». E lui aveva un sorriso per tutti, aperto da orecchia a orecchia, da uomo felice, sincero su quel volto bianco, mentre raggiungeva la sala stampa dove lo attendeva la prima domanda, sempre quella, con il ricordo del passato e di quella barretta e nella testa le note del fado, con la gioia, l’emozione e la felicità che si tramutano di colpo in tristezza e dolore. «Sono fatti che appartengono al passato, ai quali preferisco non pensare». Ma come si chiamava la sostanza?, insistono. E gli occhi di Rui affondano tristi nel dolore più profondo. Ma nonostante tutto Rui Alberto Faria da Costa - serve un bel respiro per pronunciare un nome così lungo -, ragazzo dalla personalità a volte arrogante, ma sempre calmo e con il volto sorridente, ha saputo conquistarsi l’affetto e la popolarità della gente portoghese. Al punto che nel 2012 ha battuto Cristiano Ronaldo nella corsa al titolo di sportivo dell’anno.
E mentre CR rincorreva un altro Pallone d’oro, Rui con il petto fasciato dalla maglia iridata che indosserà per tutta la prossima stagione, ha battuto un’altra volta la stella del Real Madrid. Rui è l’eroe che per primo ha regalato al Portogallo il titolo di campione del mondo di ciclismo, grazie alla sua astuzia e al suo carattere esuberante. Il suo 2013 era già una stagione perfetta, non c’era bisogno di rovinare la festa alla squadra spagnola a Firenze, ma Rui è fatto così. Lui vuole sempre di più. Basta guardarlo nei suoi occhi felini per intuire la sua fame di vittoria. Quando si è tolto di ruota Valverde e Nibali per gettarsi sulle tracce di Purito sembrava un cane che punta la preda. Un animale feroce pronto a balzare sull’arcobaleno.
Ma c’è di più, molto di più nel cuore del Campione del Mondo. Dietro ad una scorza dura e famelica, si nasconde l’anima gentile di un ciclista, un giovane uomo capace un anno fa di fare una promessa al matrimonio di due immigrati portoghesi in Svizzera. Se fosse salito ancora una volta sul gradino più alto del podio al Giro di Svizzera, lo avrebbe fatto portando in braccio il loro piccolo figlio, che sta combattendo da mesi la sua battaglia contro il cancro. Si chiama Tiago. E Rui ha mantenuto la promessa. Ha vinto il Giro di Svizzera e ha portato con sé sul podio il piccolo Tiago, per spingerlo verso la vittoria più importante.
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