Aru, il Nibali di domani

PROFESSIONISTI | 30/11/2013 | 09:18
È uno dei volti nuovi dei ciclismo italiano, uno dei corridori che hanno “scortato” Vin­cen­zo Nibali alla vittoria al Giro d’Italia. Fabio Aru, nato a San Gavino Monreale il 3 luglio del 1990, ha bruciato le tappe tanto da diventare  - dopo una sola stagione tra i pro - elemento fondamentale nello scacchiere dell’Astana di Bep­pe Martinelli. La sua famiglia (papà Alessandro che fa l’agricoltore, mamma Antonella insegnante e il fratello minore Matteo che studia e ha appena iniziato a correre in bici) vive nell’isola a Villacidro, località della Sardegna ad una quarantina di chilometri dal mare. Fabio, invece, per quasi tutto l’anno abita a Ponte San Pietro nella Bergamasca, fucina di grandi cam­pioni, da Felice Gimondi a Ivan Got­ti passando per il “Falco” Sa­vol­delli, tanto per fare qualche nome.
Se fosse nato in Francia, Aru sarebbe già il “grimpeur” che più di tutti entusiasma. Ma visto che è italiano, per fortuna nostra, allora è meglio parlare di uno scalatore vecchio stampo, un corridore che si esalta quando la strada sale ed esplode quando le pendenze diventano più proibitive. E allora visto che Santa Barbara è la patrona della sua Villacidro, viene spontaneo l’accostamento: Aru è uno dei pochi che sa in­cendiare la corsa quando dalla pianura si passa alla salita. Lo ha dimostrato da dilettante, lo ha ribadito anche al suo primo Giro d’Italia, nella tappa delle Tre Cime di Lavaredo, dove in una giornata da tregenda si è classificato al quinto posto. E lo dimostrerà certamente nel prossimo futuro.
Fabio si è avvicinato tardi al ciclismo, amante delle due ruote, ma a motore, sembrava destinato ad un futuro da Nadal con la racchetta in mano. Poi il cambio repentino di rotta. E da qui partiamo per scavare nel personaggio Fabio Aru, una delle più fulgide promesse del ciclismo italiano, al quale già tutti pronosticano una maglia rosa da mettere in bacheca.
«Da piccolo giocavo a calcio e a tennis, l’ho fatto fino a 15 anni circa. La mia giornata dopo la scuola era dedicata agli allenamenti di calcio e poi a quelli di tennis. Il ciclismo è entrato nella mia vita a 15 anni e mezzo: la bici, una comprata al supermercato, la utilizzavo per andare agli allenamenti. Nel tennis non ho vinto tornei, non sono arrivato ad alto livello, ma non l’ho mai apprezzato molto come sport, non mi piaceva l’ambiente e non mi ha mai entusiasmato: a dire il vero l’ho fatto un po’ “obbligato”, in quanto papà Alessan­dro è stato un giocatore di tennis. A calcio militavo nel Villacidro, la squadra del paese, sono arrivato fino agli Esordienti, ruolo attaccante. Mi piaceva, segnavo anche dei gol, ma anche quello non era il mio sport. Mi è sempre piaciuto il motocross, ma i genitori non mi hanno mai comprato la moto e allora ho scelto un mezzo che in qualche modo assomigliasse alla moto da cross e ho scelto la mountain bike. Quella è stata la mia prima bici vera, una Specialized di colore nero, e anche il casco era della stessa marca: guarda caso ora che sono arrivato tra i professionisti all’Astana ho ritrovato le biciclette, naturalmente da corsa, della Specialized. Ho cominciato con la bici normale, poi ho messo da parte i soldi e con l’aiuto dei genitori ho comprato la mountain bike e ho iniziato a fare le prime gare, da lì un anno più tardi so­no arrivato al ciclocross. La prima squadra è stata quella del mio paese, la MTB Piscina Irgas di Villacidro del presidente Paolo Angius. Non ho vinto subito, ho fatto una crescita graduale, tanti piazzamenti fino ad arrivare alla prima vittoria, naturalmente in Sar­de­gna. La mia vecchia squadra, la Ozie­rese Carrera di Ozieri, mi ha chiesto se volevo provare il ciclocross; i miei genitori mi hanno comprato la bici e mi hanno mantenuto per gli spostamenti: sono andato a fare le gare fuori dalla Sardegna e ho raccolto qualche buon risultato. Mi hanno convocato in nazionale per gli Europei, poi in Coppa del Mondo, al Mondiale, quindi sono stato riserva al Mondiale della Mtb nel 2008. Su strada non correvo, però ho partecipato al campionato regionale sardo e l’ho vinto e da lì mi hanno portato a fare il Giro della Lunigiana dove non ho fatto niente di che, mi sono classificato 20° nella generale. Però mi ha no­tato Olivano Locatelli della Palazza­go e mi ha chiesto se volevo provare a correre su strada e così ho iniziato. C’era una squa­dra veneta, l’Elettroveneta Cor­ratec, che mi avrebbe dato le bici per correre con loro, ma ho accettato la proposta di Locatelli, anche se mi piaceva di più la Mtb. Diciamo che mi sono messo in gioco e ho rischiato».
Un rischio ben pagato, visti i risultati. Co­me sei riuscito a barcamenarti così lontano da casa, dalla famiglia, dalla tua terra?
«La cosa che ho sofferto di più è stata la distanza: quando studiavo, viaggiavo ogni fine settimana grazie ai genitori che mi pagavano il biglietto d’aereo. Partivo al sabato pomeriggio dopo la scuola per il continente e lì nel ciclocross è stata fondamentale la famiglia Cevenini, Andrea e Bruno, che hanno una gioielleria a Bologna e sono dei veri e grandi appassionati di ciclocross. Mi hanno visto gareggiare e si sono af­fezionati a me dandomi una mano importantissima, senza chiedere niente in cambio, spinti solo dalla passione. A loro devo moltissimo, siamo rimasti in contatto e ci vediamo spesso. Mi venivano a prendere all’aeroporto,  mi portavano alle gare e mi riportavano a prendere l’aereo per tornare in Sar­degna consentendomi di essere a scuola al lunedì mattina. Sono stati fondamentali per la mia carriera. Ho preso il diploma di Liceo Classico a Villacidro, e dopo la maturità sono andato a vivere a Palazzago per correre negli Under 23. Dal gennaio di quest’anno vivo da solo a Ponte San Pietro, ho scelto la zona di Bergamo perché oramai conosco tutte le strade, c’è la Roncola che è la mia salita test, ho gli amici, sono vi­cino alla famiglia Tironi, i patron della Palazzago, con i quali ho buonissimi rapporti e che frequento spesso. È una zona familiare, non è casa mia ma è come se lo fosse. Poi vicino a me c’è Paolo Tiralongo che vive a Palazzago: mi ha preso sotto la sua ala protettrice, ci alleniamo insieme tutti i giorni, mi segue tantissimo, ci vediamo anche giù di sella e mi sta insegnando tutti i trucchi del mestiere».
Quanto ti resta di Villacidro?
«Nel 2013 fino a fine settembre ci sono stato solo otto giorni. Alla fine passerò 20 giorni all’anno a casa mia. È una cosa che pesa, ma è una mia scelta: adesso il ciclismo è la mia professione, è sempre un divertimento perché è la mia passione, ma è diventato un lavoro a tutti gli effetti. La famiglia, i parenti gli amici di infanzia che mi seguono e hanno fondato il mio fan club, il presidente Giorgio Carta e il carissimo ami­co Gianfranco Coco, si tengono sempre in contatto e andrò anche in vacanza con loro questo inverno. Mi mancano queste cose, ma tutti fanno sacrifici per lavorare, non certo solo i ciclisti, e io mi reputo fortunato visto che la bicicletta, che da prima era passione è diventata il mio lavoro. Mi manca qualche specialità come il “porceddu” ma non potrei mangiarlo comunque, vista la mia at­ti­vi­tà. Da anni mi ar­rangio da solo, mi tengo in ordine la casa e quelle po­che volte che ci sono mi faccio da mangiare: cose semplici, un piatto di pa­sta è quello che preferisco, adoro la pizza ma quel­la la pren­do già fatta».
In questi anni da emigrante della bicicletta hai mai pen­sato: ma chi me lo fa fare?
«Tante vol­te. Sincera­men­te quando ero dilettante spesso mi è passato per la testa di smettere: di­ventava dura stare lontano da casa. Magari quan­do sei a casa non lo apprezzi, ma poter parlare con i genitori, sfogarsi, è una co­sa che non ha prezzo, una cosa alla quale fai fatica a rinunciare. Solo la grande passione mi ha fatto recedere dal pensiero di lasciare».
Hai qualche mania particolare, qualcosa che non puoi fare a meno di avere con te nelle corse?
«Porto sempre con me due catenine che mi hanno regalato le mie nonne Lina e Maria: due croci che ho sempre al collo».
Hobby particolari?
«Mi piace un po’ di tutto, ma niente in particolare. Preferisco i film horror, come musica ascolto di tutto, da Vasco a  Ligabue, a Biagio Antonacci. L’ul­ti­mo libro che ho letto è quello su Mar­co Simoncelli scritto dai genitori, una lettura che mi ha emozionato. In televisione, oltre al ciclismo seguo le gare di motocross, motori in generale, ma sempre fuori strada. Sono grande tifoso di Tony Cairoli, un mito che ha vinto ben sette Mondali. A Vil­lacidro ho anche il Quad ma lo uso poco, visto che ci sono raramente».
Che succede in Fabio Aru quando la strada sale?
«Come fisico sono adatto alle salite, me­glio su quelle lunghe. È molto istintivo quello che mi succede: non ho ancora l’esperienza giusta per capire dove e quando attaccare, ma qualcosa dentro mi spinge ad alzarmi sui pedali e provarci. Ho fatto degli errori e ne farò ancora, fino a quando non saprò capire quando è il momento giusto per attaccare».
Tanti bei piazzamenti con il capolavoro nella tappa in salita al Giro. Ti manca la vittoria?
«Sinceramente sì. Sono consapevole di lavorare ogni giorno per migliorare al di là della vittoria che comunque serve: sono contento di vedere che miglioro, mi fa piacere osservare che nelle corse World Tour guadagno posizioni di vol­ta in volta negli ordini di arrivo».
Raccontaci il tuo Vincenzo Nibali.
«Oltre ad essere un grande campione è una grande persona, e questa è una do­te che ci tengo a rimarcare. Con me è sempre stato molto disponibile sin da quando sono passato professionista nel 2012 e non ero nella sua stessa squadra: mi ha sempre parlato e dato consigli, davvero una grande persona, fa piacere lavorare per uno così che non se la tira, è sempre mol­to umile, molto normale. Vale la pe­na sacrificarsi per capitani come lui che ti considerano e ti gratificano: se non fosse così, non avresti quella grinta e quella cattiveria che ti portano a sputare sangue per aiutarlo. Vincenzo è il capitano ideale».
Chi è Olivano Locatelli?
«Il maestro che mi ha insegnato tanto. Mi ha insegnato a soffrire, qualche vol­ta anche un po’ troppo, ma mi ha fatto capire realmente come è il mondo del ciclismo. Quando sono passato tra i pro ho apprezzato ancora di più i suoi consigli, perché ho visto che aveva ra­gione. Mi ha insegnato a fare la vita del corridore, al cento per cento. È un po’ troppo severo, ma se passi da lui non hai più problemi, non hai più paura di niente».
Chi è Beppe Martinelli?
«Martino mi ha voluto all’Astana, è una persona stupenda che ti sta vicino e con la quale puoi parlare di tutto. È molto umano e ti mette veramente a tuo agio. Ha creduto molto in me tanto che da neo professionista in una squadra come l’Astana mi ha proposto subito un calendario molto importante: per un giovane non è così facile avere un trattamento del genere».
Primo giorno di scuola da stagista: che ricordi hai?
«Ricordo che eravamo in Colorado, in America, era il 20 agosto del 2012 e la prima sensazione è stata che si andava a un ritmo pazzesco, avevo un po’ pau­ra di toccare i colleghi in gruppo, laddove ci si sfiora sempre, alla prima corsa con i pro non mi sentivo sicuro, poi piano piano mi hanno messo a mio agio. L’emozione l’ho sentita nei giorni precedenti la corsa, avvicinandomi al via mi rendevo conto che - anche se di fondo facevo la stessa cosa di sempre, cioè pedalare - mi trovavo in un altro mondo. Ti devi adattare, poi diventa anche il tuo di mondo».
Il primo anno è alle spalle, Fabio Aru ha messo nel mirino una corsa in particolare?
«Sinceramente, da quando ho iniziato l’obiettivo che mi pongo è di migliorare sempre negli allenamenti e nella vita. E se fai questo, di conseguenza migliori anche nelle corse. Come per tutti il sogno è quello di vincere, cosa in particolare non è una priorità. Sono fisicamente più portato per le corse a tappe che per quelle in linea, ma questo lo si potrà appurare meglio con il tempo. Ci sono corridori, come il mio capitano Nibali, che hanno dimostrato di andare forte sia nei grandi Giri che nelle Clas­siche, l’importante è migliorarsi».
Hai avuto qualche idolo nel mondo del ciclismo a cui ispirarti?
«Mi ha sempre entusiasmato Conta­dor: mi piace il suo modo di attaccare e di andare in salita. Così come mi piace il modo di correre di Nibali. Sono atleti attuali, del passato ho riguardato molti video di Pantani: sicuramente lui è sta­to uno di quei corridori che hanno dentro la voglia di attaccare, che non han­no paura di avere il vento in faccia, e sono queste le cose che più mi entusiasmano, non mi piace chi fa l’attendista in corsa».
E di sicuro il sardo dell’Astana non corre quel rischio. Lui, quando la strada si rizza sotto i pedali, “con la protezione di Santa Barbara” accende la miccia e incendia la corsa. Fabio Aru da Villaci­dro trapiantato a Ponte San Pietro, ce l’ha nel dna. Una dote che hanno solo i campioni veri.

di Valerio Zeccato, da tuttoBICI di novembre
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