DA TUTTOBICI. Serpa, l'uomo di pianura che vola in montagna

| 27/04/2012 | 08:54
Dove è nato, il ciclismo non esiste: ci sono solo mare e pianura. Con la voglia di inseguire ciò che più gli piace, però, Josè Serpa è comunque diventato ciclista, per di più scalatore. «La salita è il mio terreno preferito, anche se è quello in cui si soffre di più». Questo ragazzo colombiano che compirà 33 anni il 17 di questo mese, ci racconta - superando la timidezza che lo contraddistingue - la sua vita difficile e il ruolo che in essa ha avuto la bicicletta, il mez­zo che «mi fa scordare delle piccole e grandi preoccupazioni di ogni giorno, l’unico che riesce a farmi sentire sereno. Più che un lavoro, la passione in cui mi rifugio».
Raccontaci qualcosa in più di te...
«A parte andare in bici quando sono a casa, a Corozal Sucrè, mi piace stare in campagna e andare a cavallo, dare una mano a papà Antonio Josè che ha un’azienda agricola in cui alleva mucche. Vivo con mia moglie Olinda, mio figlio Matia di 11 mesi (Josè ha anche un altro bimbo, Juan Josè, avuto da un’altra compagna, ndr) e mia sorella Caterineh, la più piccola della famiglia, che è giornalista. Ho una famiglia molto numerosa e unita. Mamma purtroppo è scomparsa quando avevo quattro mesi, papà dopo il lutto si è risposato con una sorella di mamma, so che può sembrare strano ma per me e i miei fratelli è stato un bene per­ché era qualcuno di famiglia. No­nostante questa tragedia, ho avuto un’infanzia felice perché ho una famiglia stupenda. Ho sei fratelli: quattro femmine (Elia, 38 anni; Elisabeth, 37; Marlibeth, 27; Caterineh, 22) e due maschi (Guillermo, 34; Jorge, 26). Solo con tre di loro divido la mamma, ma con tutti sono estremamente legato. Ci vogliamo tutti molto bene e, quando qualcuno ha un problema, ci diamo sempre una mano. Da qualche anno ormai siamo sparsi per il mon­do, ma ogni anno ci ritroviamo almeno quindici-venti giorni per stare as­sieme».
Vivi tra Italia e Colombia.
«Nell’arco di un anno vivo tre mesi in Italia, due in Colombia, due in Italia e co­sì via. In base al programma di corse, trascorro dei periodi a casa e altri a Cossato (BI), dove c’è il magazzino della squadra, in­sieme agli altri corridori stranieri del­l’Androni. Mama Rita è la nostra mamma italiana: sono sette anni ormai che abito con lei. È la proprietaria del­l’Hotel Tina in cui sto con Carlos, Jackson, Josè. Un am­bien­te davvero familiare, ormai mi ci sento come a casa: ci facciamo il caffè quando vogliamo, stiamo assieme... Lei per noi è davvero come una mamma: ci cura e ci vizia in tutto e per tutto. Ha tre figli suoi, ma ormai ci ha praticamente adottato».
Quando hai iniziato a pedalare?
«Prima di iniziare a correre ho frequentato le scuole dell’obbligo e lavorato in campagna. Ho iniziato a usare la bici verso i 16 anni, l’amore per questo sport mi è stato trasmesso dal mio babbo, grande appassionato di tutte le discipline e cicloamatore. Quando lui ha smesso di correre, mio fratello ha rimesso a posto la sua bici: la usava al mattino quando io ero a scuola, e io al contrario ci pedalavo la sera quando lui frequentava un corso serale. Ce la sia­mo divisa al 50% finchè un bel giorno papà ha deciso di comprarcene un’al­tra, cosicché non dovessimo più litigare per dividerci la sua. Era una bici “da battaglia”, chiaramente non bella come quelle che uso da quando corro tra i professionisti, ma ero contentissimo di averla».
Avevi degli idoli?
«Due, i più grandi di tutti: Miguel In­du­rain e Marco Pantani. Quando ero piccolo ascoltavo la radio e sentivo parlare di loro, mi veniva la pelle d’oca ad ascoltare il racconto delle loro imprese. Quan­­do muovevo le mie prime pedalate, giocavo fingendo di essere loro: quando ero in salita mi immaginavo di essere Pantani, quando ero in pianura Indurain. Mi facevo un bel film (scherza, ndr)».
Come giudichi finora la tua carriera?
«Sono soddisfatto, ma c’è ancora tanto che posso fare. In corsa generalmente sono tranquillo e molto attento. Ogni anno vado meglio e quest’anno spero di disputare un buon Giro d’Italia. Il mio miglior risultato alla corsa rosa è stato il 13° posto nel 2009, nel 2012 spero di arrivare nei 10 e far mia una tappa. Da pro­fessionista ho sempre corso con Sa­vio, prima alla Selle Italia poi alla Di­quigiovanni e da tre anni alla Andro­ni. Per sette anni ho anche ga­reg­giato in pista con la nazionale co­lom­biana, partecipando a quattro mondiali e alle Olim­piadi di Atene; inseguimento a squadre, madison e corsa a punti erano le mie specialità. In questi anni ho raccolto nu­merose esperienze positive, non posso lamentarmi».
A chi ti senti di dire grazie per dove sei arrivato?
«In primis alla mia famiglia, che è sempre stata al mio fianco. Anche da lontano mi seguono sempre attraverso internet e tv e papà, per il quale sono ancora il “suo bimbo”, se non mi sente per telefono tutti i giorni sta male (sorride, ndr). E poi devo molto a Gianni Savio, che ha avuto un ruolo fondamentale per la mia carriera. Quando ero un ragazzo, nessuna squadra colombiana mi voleva perché dicevano: “sei solo un pistard, in salita non vai”. Correvo con la nazionale perché nessun team era interessato alla pista. Nel mio paese se non sei uno scalatore non conti nulla e io all’epoca andavo solo a cronometro, la salita non sapevo neanche come fos­se fatta. Nel 2005 Gianni mi notò al Clasico Banfoandes, in Venezuela, do­ve vinsi una tappa. Pesavo 74 chili, una decina di chili più di ora, ma lui aveva colto il mio potenziale. Mi disse: “Se da qui alla Vuelta al Tàchira dimagrisci, possiamo parlare di un contratto”. Non potevo lasciarmi sfuggire l’occa­sio­ne: mi misi a dieta, persi 8 chili, vinsi tre tappe e feci secondo in classifica (potevo anche vincere, ma il leader della generale era Manuel Medina, venezuelano e mio compagno di squadra, quindi per ordini di scuderia mi accontentai della piazza d’onore). Co­sì iniziò la mia avventura alla sua corte».
Se non fossi venuto in Italia a gareggiare, cosa avresti fatto?
«Avrei continuato a lavorare in campagna con papà. Sono contento di come sia andata la mia vita professionale, il ci­clismo mi ha dato tantissimo. Espe­rien­ze, viaggi, lezioni ed emozioni».
Cosa rappresenta per te la salita?
«A differenza di dove sono nato, in Italia vivo dove non c’è un metro di pianura, è tutta salita. Sono uno che si adatta a dove vive (sorride, ndr). Quan­do sono “a tutta” in salita penso che sono capace di fare ancora più fatica, che soffrire in bici non è nulla ri­spetto ad altri dolori della vita, quindi mi ripeto che sono capace di tenere qualunque avversario e nella mia testa continuo a incitarmi da solo: “Non ti staccare, non ti staccare...”».
La vittoria al Tour de Langkawi ha rappresentato un buon inizio di stagione per te.
«Perfetto! Questa corsa rappresentò la mia prima vittoria da professionista nel 2006, ogni anno in cui vi ho preso par­te ho portato a casa almeno una tappa (due nel 2006, una nel 2007 e una nel 2008, tappa e classifica finale nel 2009, ndr) perciò non posso che essere particolarmente legato a questa corsa. Ne custodisco dei bellissimi ricordi. Sono felice di aver portato a casa la generale e due tappe. Della Malesia mi piace il clima perchè ricorda quello colombiano, lì - come del resto ormai in Italia - sento aria di casa».
Come ti trovi nella Androni Venezuela?
«In squadra siamo tutti amici prima che colleghi, passiamo le giornate a ridere e scherzare, non solo tra corridori, ma anche con lo staff. C’è davvero una bellissima atmosfera, per questo non ho mai cambiato maglia. Nono­stan­te possa fare affidamento sul clima familiare del team, ora che sono papà è più difficile stare lontano da casa a lun­go per le gare. La mancanza dei miei bim­bi è incredibile, mi do forza dicendomi che se faccio il sacrificio di stare lontano da casa, lo faccio per loro. Avre­mo tempo per stare assieme».
La vittoria più bella che hai conquistato finora?
«Sono tutte belle, ma la prova in linea dei Giochi Panamericani del 2006 è quella che ricordo con più piacere perché nel finale ero in fuga con tre corridori, tutti brasiliani, e sono riuscito a vin­cere. Davano per scontato che es­sen­do in superiorità numerica mi avrebbero battuto, invece si sbagliavano».
Come ti immagini tra qualche anno?
«Su un cavallo, in campagna. La vita di città non fa assolutamente per me. Quando appenderò la bici al chiodo, senza dimenticare il paese che tanto mi ha dato in termini professionali e non so­lo, tornerò a casa molto volentieri. Dove il ciclismo non esiste, c’è solo ma­re e pianura. Così la smetto di fare fatica in salita (scherza)».
Che traguardo vorresti raggiungere prima di smettere di correre?
«La gara che sogno da sempre è il Tour de France, in futuro mi accontenterei di prendervi parte. E poi mi piacerebbe terminare la carriera correndo almeno una stagione nel mio paese. Vorrei davvero partecipare al Giro di Colombia non solo per provare a vincerlo, ma an­che per promuovere un po’ il ciclismo nella mia terra. Vi ho detto che lì quando ero un bambino la gente non sapeva cos’era il ciclismo, a una ventina di anni di distanza la situazione non è cambiata molto. Mi auguro che quando i piccoli Serpa avranno l’età che avevo io quando ho iniziato a pedalare, la bicicletta sia più utilizzata, anche dal­le mie parti e lo sport del ciclismo sia ancora più apprezzato».

di Giulia De Maio, da tuttoBICI di aprile
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