| 27/09/2005 | 00:00 «Ho ascoltato in silenzio le analisi del dopo-Mondiale, incassando, nell'ordine, critiche pesanti sul mio valore di atleta, feroci insinuazioni sulla mia maturità di uomo, lezioni etiche sulla mia lealtà sportiva, rimbrotti su una mia presunta disaffezione alla maglia azzurra. Hanno parlato in tanti, molto spesso "a caldo", scaricando sul sottoscritto tutte le colpe di un Mondiale andato male. Io, invece, ho preferito prendermi qualche giorno di riflessione, aspettare che l'emotività del momento lasciasse il passo ad una più lucida e ragionata analisi delle cose.
Parlo oggi non per replicare ad accuse gratuite e pretestuose, ma solo per dare agli addetti ai lavori la mia versione dei fatti.
La premessa è tanto semplice quanto fondamentale: io sono un uomo, non una macchina. Ho l'esperienza per capire, durante la corsa, la mia reale condizione atletica, ma sul manubrio non ho né una spia che si accende automaticamente quando sto per finire il carburante né una palla di vetro in grado di prevedere se, sul rettilineo finale, avrò la forza sufficiente per giocarmi al meglio la volata.
Fino a dieci chilometri dalla fine del mondiale, pensavo di stare “normalmente”. Non avevo la condizione della Sanremo di quest’anno, ma con queste sensazioni ho vinto decine e decine di corse. Spesso mi capita di dire che non sono al massimo per insicurezza e chi mi ha guidato in questi anni lo sa molto bene. Domenica mi sono accorto che ero in difficoltà solo quando la strada ha cominciato a salire all’ultimo giro. Le energie hanno cominciato a venir meno e, benchè sapessi di giocarmi la gara dell'anno, non ho più trovato le forze per stare coi primissimi.
Chi fa il ciclista o, da anni, scrive di ciclismo, sa perfettamente che può capitare.
Due anni fa, alla Milano-Sanremo, dopo la salita del Poggio ero convinto che avrei vinto. Invece, quando l'andatura si è alzata, ho capito che in quello sprint avrei fatto la comparsa. Quest'anno, viceversa, a due chilometri dalla fine, non avrei scommesso sulla mia vittoria alla Sanremo e, invece, ricordate tutti come è andata a finire.
Il Mondiale di Madrid era uno dei miei obiettivi stagionali e, come tale, mi ero preparato all'appuntamento con il massimo dell'impegno possibile. Sapevo, però, anche di indossare la maglia azzurra e dunque sarei stato felicissimo se, al mio posto, avesse vinto un italiano, Bettini in primis.
Essere la punta della nazionale azzurra di ciclismo è un onore che va santificato fino in fondo, con maturità ed intelligenza, per questo non avrei esitato a farmi da parte se, questo, fosse servito a far vincere un italiano. Se a cinquanta chilometri dall'arrivo, mi fossi accorto che la benzina era finita, lo avrei comunicato, con chiarezza, alla squadra. Purtroppo le gambe mi sono mancate solo a dieci chilometri dal traguardo, quando la tattica di gara era ormai già definita, ma speravo in un miracolo in extremis.
Per questo, posso accettare, da corridore, che si dica che Petacchi non ha avuto la forza o la classe di vincere il Mondiale, decidete voi. Ma da uomo, non posso tollerare che qualcuno avanzi sospetti sulla mia lealtà.
Mi spiace che qualcuno mi abbia dipinto come una prima donna capricciosa, che antepone i suoi interessi a quelli della Nazionale Italiana. Chi mi conosce sa bene che sono un uomo onesto e leale. Io sono solo un ciclista che ha dato l'anima per vincere quella gara e che, purtroppo, non ce l'ha fatta. E' un epilogo amaro, ma da sportivo, va accettato».
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