L'INTERVISTA. Parla Acquarone, il nuovo numero 1 del Giro

| 27/09/2011 | 08:55
Da Sanremo a Milano per or­ganizzare la Milano-San­remo e molto di più. Da San­remo a Milano per cercare la propria strada e dimensione: di uomo e manager. Da Sanremo a Mi­la­no per la Milano-Sanremo simbolo ul­tracentenario di un ciclismo eterno, ca­rico di storie e di suggestioni, aneddoti e leggende, vittorie, sconfitte e mai un pareggio. Sì perché nel ciclismo il pari non esiste. Nello sport del pedale c’è posto solo per chi vince: un primo e poi un bel gruppo di sconfitti. Primi o battuti. Che poi è un po’ come dire tutto e nien­te. Gioia o dolore. Bianco o nero. A pensarci bene però c’è anche e so­prat­tutto tanto rosa nella nostra vita come in quella di Michele Acquarone, 39 anni da Sanremo a Milano, passando per i tavoli del ristorante “Bice” di New York - dove ha fatto il cameriere -e dopo aver conseguito una laurea in Economia e Marketing alla Bocconi. Tra una cosa e l’altra ha avuto anche il tempo di tenere la contabilità delle so­cietà di Lory Del Santo e prima si è anche misurato come disk jockey sulle frequenze di Radio Rock Fm di Mi­la­no. Tutto questo prima di arrivare ad occupare il ruolo di nuovo responsabile del Giro d’Italia e del ciclismo targato Rcs Sport. Noi di tuttoBICI l’abbia­mo incontrato poco prima della sosta estiva: un incontro cordiale per conoscerci negli uffici di via Solferino. Un incontro franco e piacevole dopo la piccola grande rivoluzione interna che ha portato Angelo Zomegnan, patron per sette anni della “corsa rosa”, a fare un passo indietro e Michele Acquarone a farne uno in avanti. Molti si sono chiesti: ma chi è e da dove viene il nuo­vo re­sponsabile del ciclismo targato Gaz­zet­ta dello Sport? Cosa fa e cosa intende fare del nostro beneamato sport e della corsa a tappe più amata dagli italiani? Tante le domande e molte le risposte che ci ha concesso  il diretto interessato. Ecco il suo pensiero.
Sulla pagina twitter di Michele Acquarone si legge una frase di Michael Jordan: ac­cet­to il fallimento, non quello di averci almeno provato.
«È una frase che sento profondamente mia e alla quale mi ispiro quotidianamente. Io voglio sempre provarci e i miei collaboratori devono fare altrettanto. Abbiamo la fortuna di non essere dei chirurghi: possiamo anche sbagliare, ma guai non averci provato. Io ho attorno a me tanta gente molto in gamba. Credo nella leaderhisp e nell’esaltazione del talento. John Wooden, detto il mago di Westwood, leggendario coach del college di Ucla, morto all’età di 99 anni dopo una vita di successi, ha sempre costruito i suoi trionfi sul concetto di squadra: da soli non si vince. I solisti sono bravi, ma non sono mai motivo di successo».
Vuole dire che Zomegnan era un fantastico solista però poco funzionale al gioco di squadra?
«Questo lo dice lei. Io dico soltanto che l’Inter di Mourihno prima di vincere tutto e fare una storica “triplete”, si è privata di Ibrahimovich. Il talento di Ibra non si discute, ma Mourihno ha preferito puntare sul collettivo che sul talento assoluto di un giocatore eccezionale come lo svedese. Zomegnan sicuramente era e resta un talento di pri­ma grandezza, ma noi di Rcs Sport, anche senza Angelo, possiamo fare molto bene: l’importante è essere squadra».
La prima telefonata dopo la nomina a nuovo responsabile del ciclismo…
«Quella del presidente della Rai Paolo Garimberti. È stato molto gentile e ca­rino ma anche molto spietato con me. “Caro Acquarone, buon lavoro, so che potrai fare molto bene, però adesso che sei a capo del Giro devi dimagrire…».
La bicicletta è l’ideale per perdere peso.
«Lo so e non è detto che ci faccia un pensierino».
Ci parli di lei.
«Sono nato a Sanremo nel 1972, in via Val del Ponte, appena sopra corso Ga­ri­baldi. Se nasci a Sanremo tu sai che ci sono la Sanremo e il Festival. Di en­trambi gli eventi ne vai davvero fie­ro. Cresco in pratica con una mamma e un papà, nel senso che sono separati e io mi divido tra di loro: un po’ con uno e un po’ con un altro. In casa mia di sport non se ne parla. È mio zio Gianni Bertolo, juventino sfegatato come il sottoscritto, a trasmettermi la passione per basket, nuoto, tennis, pallavolo, pugilato, calcio, atletica e ciclismo. Ho iniziato a leggere la Gazzetta dello sport per i fatti miei a 10-11 anni. Più Fe­sti­val o Sanremo? Più festival, solo per il fatto che è un evento che durava e dura quindici giorni. Però anche la Milano-Sanremo era festa allo stato puro: al sabato solo due ore di scuola e poi tutti in via Roma, a cercare cappellini e borracce, biglie e figurine».
A proposito di biglie: qual era il suo campione del cuore?
«Erano gli anni di Eddy Merckx, vinceva tutto: soprattutto Milano-Sanremo (ben sette, ndr). Ma io tifavo per Felice Gimondi».
E sul lato musicale il cuore dove batteva?
«Tutto per Patsy Kensit, voce del gruppo Eighth Wonder. Ricordo ancora oggi come se fosse ieri quando mi im­bucai all’Hotel Astoria per poterla vedere. Fui talmente bravo, che mi trovai a prendere un aperitivo con lei. Era­vamo in pratica coetanei: io avrò avuto 15 anni, lei penso 19. Comincio a parlare con il mio inglese molto improbabile, ma lei si mostra immediatamente molto ben disposta, perché in mezzo a tutti quei vecchi tromboni ero l’unico con il quale poter parlare tranquillamente. Non so quante ore passarono, ri­cordo solo che papà Sergio ad un certo punto si rivelò a noi con tutti i suoi cento chili e gli occhi iniettati di sangue. Erano ore che mi cercava in lungo e in largo per le strade di San­remo e finalmente mi aveva scovato al bar dell’hotel Astoria. Senza proferire parola mi prese risoluto per un orecchio e mi trascinò a casa. Io mi sarei voluto nascondere per la vergogna: trascinato via come un piccolo moccioso davanti al mio mito giovanile. Mi aveva appena invitato al festival e mi ritrovavo tutto solo nella mia cameretta letteralmente sdraiato su un poster di Patsy Kensit a piangere a dirotto. Quello è l’episodio di un Festival che non potrò mai dimenticare».
Tanta musica, tanta passione…
«Mi è sempre piaciuta la musica. I miei preferiti? Gli Red Hot Chili Peppers, Bon Jovi e gli 30 Seconds to Mars».
Potrebbe organizzare anche il cantaGi­ro…
«Mai dire mai. Ci potrei anche pensare… Il Giro è uno spettacolo di piazza, e alla sera le piazze vanno animate an­che con questo tipo di manifestazioni».
Quando entra il ciclismo nella sua vita?
«Come le ho detto, essendo nato a San­remo, il ciclismo entra nella mia vita a piccole dosi e molto dolcemente, praticamente subito. Poi per un certo periodo devo dire che non me ne sono più occupato. Preferivo il calcio, il basket e altri sport. Poi, trasferitomi a Milano, dove mio padre viveva ma in pratica non era mai a casa, scopro il ciclismo. In una bella casa ampia e spaziosa, tra qualche libro di economia il mio compagno di studi Andrea Cali­garis mi in­troduce nel fantastico mon­do delle due ruote. Lui è di Santa Mar­gherita Li­gu­re, ci conosciamo nelle aule della Boc­coni e facciamo subito amicizia. Lui è letteralmente malato di ciclismo e non c’è gara che non voglia vedere. Ini­zial­mente mi rompo un po’, ma poco per volta comincio a capire i meccanismi, le tattiche e mi appassiono. Il primo Giro che seguo da vero appassionato è quello vinto da Eugenio Berzin: è il 1994. Esplode il mito di Marco Pan­tani: giù il cappellino e via verso il traguardo tutto solo. Che emozioni…».
E poi?...
«Dopo la laurea faccio il militare: nella Marina. Poi mi prendo un paio di anni sabbatici per conoscere il mondo e per capire cosa posso fare da grande della mia vita. Papà ripete: “guarda che con il marketing non si vive, mettiti il cuore in pace e fai il commercialista“. Io lo lascio dire, ma intanto faccio. Mando in giro qualche curriculum, e nel frattempo decido di fare anche il commercialista. Per un anno curo la contabilità di Lory Del Santo. Poi però finisco anche sui campi da tennis come istruttore al Club Med. E poi anche cameriere a New York. Insomma, mi do da fare. Come si dice: vedo gente, faccio cose».
Quando arriva la svolta?
«Nel settembre del 1999. L’Italia e non solo è piena di miei curriculum e vengo chiamato dalla Rcs Quotidiani: ufficio marketing. Comincio a lavorare per la Gazzetta dello Sport: c’è da valorizzare il marchio. Ci lavoro per quattro anni. Metto per la prima volta il naso al Giro d’Italia nel 2000: è quello del Giubileo, parte da Roma: prima maglia rosa Ma­rio Cipollini, vittoria finale Stefano Garzelli. Conosco Carmine Castellano e gran parte dei ragazzi che ora andranno a costituire la mia squadra. Oltre al Giro del 2000 faccio anche i successivi due, compreso quello di Sanremo e del famoso blitz».
Sanremo torna continuamente nella sua vita…
«Speriamo però che con i blitz si sia messa la parola fine».
Un blitz è stato anche quello del Cro­stis…
«Per certi versi sì, il blitz ce l’ha fatto il presidente di giuria che a ventiquattro ore dall’evento ha giudicato la tappa tecnicamente non idonea perché non era possibile - secondo lui - garantire l’assistenza a tutti i corridori».
Dispiaciuto per non aver portato il Giro sul Crostis?
«Dispiaciuto e addolorato per non aver­lo portato su e giù dal Criostis. È stata un’ingiustizia tecnica, perché i vo­lontari di Enzo Cainero avevano lavorato in maniera encomiabile e i corridori hanno perso una grande occasione. Ad ogni modo c’è una cosa che in tutta questa vicenda mi consola parecchio…».
Quale, scusi?
«A livello promozionale il Crostis è stato un vero successo. Tutte le attenzioni che sono state rivolte a questa tappa ha fatto sì che oggi il mondo in­tero dei cicloamatori conosca la salita e la discesa del Crostis. Gli organizzatori hanno avuto cinque volte la visibilità rispetto a quello che avrebbero potuto avere se la tappa fosse stata disputata».
Quindi dovete ringraziare il presidente di giuria e i dissidenti…
«Non esageriamo. Io avrei preferito me­no attenzioni e più spettacolo su quelle strade».
Torniamo a lei: dopo i quattro anni a la­vo­rare per la Rcs Quotidiani cosa succede?
«Nel 2004 divento responsabile dell’area dei prodotti collaterali della Gaz­zetta dello Sport. Quando la prendo in mano, questa nuovissima area fattura intorno ai 5 milioni di euro: io e altri quattro ragazzi in gamba la portiamo in breve tempo ad 80. Di cosa mi occupo precisamente? Tutto ciò che viene venduto con la Gazzetta - meno il ma­gazine SportWeek - era di nostra competenza. Dvd, Cd, figurine, album, qualsiasi cosa si potesse vendere assieme alla Gazzetta noi lo facevamo. Con il DVD di Maradona facciano il vero botto: più di un milione di copie vendute. La credibilità però me la guadagno nel mese di aprile del 2005 con la collana sul Wrestling. Ho la fortuna e l’intuizione di affiancare alla rosea la promozione di uno degli sport più emergenti tra gli adolescenti. Sono in molti, per non dire quasi la totalità, a storcere il naso. Io vado avanti per la mia strada, soprattutto perché mi ap­pog­gia Catano, che allora come oggi è il mio capo. Era il circo del momento e anche in quell’occasione facciamo il tut­to esaurito: più di un milione di co­pie vendute. Il giorno del lancio capiamo subito che sarà un successo: invitiamo in redazione John Cena e via Solferino è invasa per ore da appassionati adolescenti a caccia di autografi del loro idolo: deve intervenire la forza pubblica per garantire la sicurezza».
Lei dice di avere una buona squadra, ma ha anche e soprattutto una bella famiglia…
«Ed è la cosa di cui vado più orgoglioso. Sono papà di tre bellissimi bambini: Alessandro di otto anni, Leonardo di quattro e Davide l’ultimo arrivato ad aprile. Mia moglie Elena Taz­zioli è di Sassuolo e ci conosciamo al Motor Show, al primo anno di Gazzetta. Per me la famiglia è davvero tutto, la cosa più importante, il mio punto di riferimento, la mia vera squadra».
Ora però, con l’altra squadra, c’è da prendere il Tour de France…
«No, non è questo il nostro obiettivo. Saremmo stupidi e poco realisti. Il nostro obiettivo è quello di migliorarci, di crescere, di fare sempre meglio, poi tra due/tre anni si farà il punto e verificheremo dove siamo arrivati».
La parola d’ordine per lei quindi è una e una sola: squadra.
«Esattamente. Quando mi è stato chiesto: “chi mettiamo al posto di Zome­gnan?” Io ho risposto: “uno in meno ma lavoriamo di più e meglio. Abbiate fiducia in me, la squadra c’è”».
Un cosa che riconosci e una che imputi a Zome­gnan?
«Credo che Angelo abbia avuto il grande merito di aver fatto tornare il ciclismo italiano sui tavoli che contano. Con il suo network e il suo carattere è riuscito a farsi ascoltare. Ho la sensazione che si è saputo imporre come po­chi sarebbero riusciti a fare e per me questa è un’eredità molto importante e pesante. La cosa che gli imputo però è che questa sua forza ha prodotto troppi ca­daveri. Io sono per andare d’ac­cordo con le persone. Penso che una soluzione si possa trovare sempre e comunque. Io credo nel­la mediazione. E penso che la vita non sia solo fatta di bianco o nero, ma anche e soprattutto di sfumature di grigio. Certo, quando ci sono da prendere delle decisioni, si prendono».  
Quando ha saputo che Zo­me­gnan sarebbe andato via?
«Personalmente ha cominciato a mandarmi i primi segnali forti ad aprile. Molti mi dicevano che ogni anno diceva le stesse cose ma poi ci avrebbe ri­pensato. Pur­troppo non è stato così, perché probabilmente ha delle ottime proposte sia all’interno dell’azienda che fuori».
C’è stata la possibilità che ve­niss­e una persona da fuori?
«Sì, l’azienda penso che ci abbia se­riamente pensato. L’ammi­ni­stra­tore dele­ga­to Perricone, il di­rettore generale del­la Quotidiani Lat­tanzi, lo stesso  am­mini­stra­tor­e delegato di Rcs Sport Catano e il direttore di Gazzetta Mon­ti, tutti probabilmente hanno pensato ad una persona che potesse venire da fuori, poi è stato deciso di proseguire con un team forte, competente e affidabile».
Merito suo…
«Anche».
A questo punto è doveroso parlare della sua squadra.
«La decisione di puntare su questo team e non sostituire la figura di Zo­megnan nasce dalla Tirreno-Adriatico. An­gelo non ha mai lavorato per la Tirreno. Non conosco le ragioni, ma molto probabilmente per loro equilibri interni della Tirr­eno si è sempre oc­cupato solo Mauro Ve­gni, uomo profondamente legato ad una corsa nella quale è cresciuto all’ombra del grande Franco Mealli. Alla Tirreno-Adriatico ho sempre respirato un clima eccezionale. In questa corsa c’è sempre stata una bellissima atmosfera. Tutto era bello: tracciati, cast eccezionale, tutti che lavoravano con grande serenità in un clima di assoluta armonia. Mi dico: ma se questa squadra lavora bene per la Tirreno, perché non può lavorare altrettanto bene anche al Giro d’Italia? Così decido di proporre ai miei superiori di investire sulle professionalità che già esistevano. Mauro Vegni è un pilastro, un vero uomo di ciclismo. Roberto Salvador è una grandissima sicurezza per la parte logistica (acquisti e gestione: confeziona il prodotto come po­­chi). Io vorrei che queste due figure si esprimano al meglio. So che sono due grandi personaggi e possono fare grandissime cose assieme grazie alle loro rispettive squadre. Nel team di Mauro Vegni ci sono professionalità come Ste­fano Allocchio, Ales­san­dro Giannelli e Luca Papini. In quello di Salvador c’è Emanuele Cat­taneo e Luca Piantanida. Sopra questi due colonnoni fatti da Ve­gni e Sal­vador, c’è un architrave che è costituita da Marco Gobbi che ha 31 anni ed è il marketing: lui ha il compito di valorizzare a dovere tutta la festa. A questi ci unisco la parte commerciale: ho uno dei più bravi direttori commerciali, Lorenzo Giorgetti. Dall’altra par­te ho Matteo Pastore che mi gestisce le relazioni e i diritti media come meglio non potrebbe fare. Di cosa posso la­men­tarmi? Sono convinto di avere il meglio. Io devo solo metterli nelle condizioni migliori per farli lavorare in armonia: il resto verrà da se».
Il Giro 2012 è già fatto?
«No, è già stato pensato a grandi linee, ma è ancora tutto da perfezionare. Sap­piamo da dove partirà ma tutto il resto va ancora definito».
E Milano?
«Io sono un po’ laico su questo argomento. Milano non è né Parigi né Ma­drid. L’Italia è un paese fatto di tanti campanili. Certo, non è male arrivare a Milano, ma l’arrivo di Verona non è stato da meno. E lo stesso discorso possiamo farlo con Roma. Milano è importante ed è certamente la nostra tradizione, però perché devo entrare in uno standard? Valuteremo bene anche la questione Milano, ma la stessa città deve dimostrarsi attenta e disponibile verso il Giro. Per il resto sarà una cor­sa con meno trasferimenti, quindi me­no massacrante. Mauro Vegni e Ste­fano Allocchio penseranno a disegnare il prodotto e Marco Gobbi si interfaccerà costantemente con Auro Bul­ba­rel­li - referente del ciclismo per Rai -, per proporre al meglio il prodotto. Quando lo presenteremo? Nella seconda metà di ottobre».
Le tappe chi le “venderà”?
«Mauro Vegni. Mauro sarà un manager a tutto tondo».
Un Giro che le è piaciuto e che rappresenta il suo standard, il suo ideale…
«Quello del 2010. Giro cattivo, duro, come deve essere una grande corsa a tappe, ma anche equilibrato. Quello di quest’anno era troppo sbilanciato».
Quello di quest’anno è stato un Giro mol­to difficile sotto tutti i punti di vista.
«Molto, fin da subito. I trasferimenti erano davvero molto complicati, la tensione era palpabile fin da Torino. Poi la disgrazia di Wouter Weylandt ha dav­vero messo un sigillo brutale alla corsa. La disgrazia di Rapallo però mi ha confermato che la squadra c’era e lo stato di crisi è stato gestito come me­glio non avremmo potuto. Quella è stata una esperienza forte, difficile, traumatica e molto dolorosa. Ma ho anche capito quanto sia amato il Giro dagli italiani».
Cosa hai invece capito della vicenda del Crostis?
«Ho capito che ci sono tante persone che stanno litigando e che dovrò incontrarne molte per capire il perché. Il Crostis è stato gestito malissimo non da noi ma da chi ci ha obbligato a non correrlo».
Chi vi ha obbligato di non correre?
«L’ho detto prima: la giuria. Però non ce lo può dire la sera prima».
C’è qualcosa che si sente di precisare a distanza di tempo…
«Il Crostis era la discesa più sicura che i ciclisti potevano affrontare e mi spiace che si continui ad equivocare. La ve­rità è che la Giuria e l’Uci hanno accolto il parere di alcune squadre che la­mentavano il fatto che non ci sarebbe stata l’adeguata assistenza tecnica a tutti i corridori. Probabilmente il Cro­stis è stato il pretesto per combattere altre partite. Giochi di potere e di for­za. Di cui io non so niente. Adesso che Angelo Zomegnan non se ne occuperà più, cercherò di capire».
Ora dovrà tenere rapporti anche con le istituzioni…
«Devo. Ho cominciato già da fine agosto ad incontrare persone e istituzioni e farò in modo di incontrare tutti, per capire. Nessuno escluso. Ho il dovere di farlo. Magari non lo farò sempre in prima persona, ma io voglio lavorare bene con tutti. Voglio spiegare il mio progetto e capire quello degli altri: vado con grande umiltà a chiedere e ad imparare. Ma non ho nemmeno tanta voglia di farmi prendere per il naso».
Ha rapporti con Carmine Castellano?
«Non li ho mai persi e ci siamo anche visti pochi giorni dopo la mia nomina».
È possibile che possa tornare nella squadra?
«La squadra c’è ed è forte, ma so anche che Carmine ha un grande bagaglio di esperienza e noi le esperienze non le dilapidiamo. È un grande amico di Mau­ro (Vegni, ndr) ed è una persona alla quale spesso mi rivolgo anch’io per capire e confrontarmi».
Sa cosa significa per la storia del Giro d’I­talia Vincenzo Torriani?
«So che è inarrivabile».
Se un giorno la chiamassero patron?
«I patron sono solo e soltanto Ar­mando Cougnet e Vincenzo Torriani. Noi oggi siamo in venti a cercare di fare quello che loro in pratica  facevano da soli. Se qualcuno mi chiamerà pa­tron gli farò un sorriso, niente di più».
Il prossimo anno le Olimpiadi di Londra condizioneranno il calendario: meno giorni tra il Giro e il Tour. Non teme che i corridori più forti sceglieranno di andare solo in Francia?
«Io non sono abituato a sottovalutare i problemi: il rischio c’è e cercheremo di allestire come sempre un cast di eccezione. Il Tour è il Tour, ma il Giro ha la sua storia, il suo fascino. Il Tour è una corsa di testa, il Giro è la corsa del cuore».
Quante squadre pensate di invitate il prossimo anno: 20, 22, 24?...
«Guardi, di questo se ne occuperanno Ve­gni e il suo staff. Valuteremo con calma e serenità tutto. Posso dirle una cosa, al prossimo Giro ci sarà sicuramente una squadra forte e motivata: la nostra. Sta già lavorando: basta guardarsi in Giro».

da tuttoBICI di settembre
a firma di Pier Augusto Stagi

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COMMENTI
Acquarone...e il pubblico?
27 settembre 2011 09:43 magico47
IL pubblico è parte integrante di uno sport,da come leggo si tira solo a far "cassetta",giornali,DVD ecc.Si pensa solo al Giro d'Italia dove si fa vedere il gruppo compatto per 3/4 ore di diretta fino all'arrivo,si snobbano tutte le altre corse sul territorio Italiano,ricordo che noi utenti abbiamo la possibilità di vedere solo 3 corse in diretta TV,sono la Milano Sanremo,il Giro di Lombardia e la 3 valli Varesine(complice la politica),poi le corse a tappe sono, la Tirreno Adriatico e il Giro d'italia.
I palinsesti fanno ridere dobbiamo stare ore ed ore davanti alla TV per vedere tutte le altre corse in differita già a risultato conosciuto...di questo non parla nessuno?
La gazzetta dello sport,a parte il Giro d'Italia,si occupa di ciclismo per tutto il resto della stagione solo con dei miseri articoli,anche di questo nessuno parla?IL Ciclismo non è solo il giro d'italia.

Loriano Gragnoli DCI

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