Corriere della Sera. Guariniello: pericolose le parole di Torri

| 07/10/2010 | 15:10
Il doping ha fatto 13

Dentro, nell’occhio del ciclone doping, l’atmosfera non è meno turbolenta. Tredici Procure della Repubblica, oggi, in Italia, indagano sul midollo marcio del ciclismo, da Trento a Pescara, isole comprese. L’ultima a essersi attivata, una Procura sarda, sta per trasmettere materiale bollente a Ettore Torri, il magistrato del Coni che martedì ha pronunciato le parole che molti pensano e nessuno ha il coraggio di dire: «Non c’è giustizia quando su 100 ciclisti ce ne sono 99 che si dopano senza subire conseguenze».
Giro d’Italia

Tredici Procure impegnate a sequestrare farmaci illeciti, indagare atleti, interrogare flebo come fondi del caffè. È normale, tutto ciò, dottor Guariniello? «Tredici sono ancora poche — risponde il pm antidoping più celebre d’Italia, l’uomo che portò la Juve in tribunale e provò profonda compassione davanti al mutismo ostinato di Marco Pantani —. Ma tredici Procure al lavoro sono anche un segnale della diffusione del fenomeno doping nel mondo del ciclismo professionistico e amatoriale. Io, che amo raccogliere le sentenze della Cassazione, ne ho già contate cinquanta in materia di applicazione della legge antidoping italiana. Che, ricordiamolo, è ottima». È d’accordo con la provocazione di Torri: liberalizziamo il doping? «Nient’affatto. Non condivido la frase nemmeno a livello di provocazione. Dirlo è pericoloso, persino incoraggiante per certe menti. Ed è una resa. Ma non mi stupisco: gli strumenti della giustizia sportiva non sono quelli della giustizia ordinaria. Non bisogna arrendersi: nella legge abbiamo un’arma straordinaria».

Bufera di parole

Adesso che la bufera infuria, adesso che i vertici del ciclismo si scagliano contro Torri (McQuaid, presidente della Federazione internazionale: «Accusa grave, infamante e del tutto priva di qualsiasi riscontro oggettivo su tutta una categoria di atleti»; Di Rocco, presidente della Federciclo italiana: «Dichiarazioni indiscriminate e generalizzate che rappresentano un danno d’immagine enorme per il nostro movimento»; Amadio, general manager Liquigas: «Ci chiediamo come Torri possa continuare a ricoprire il ruolo di capo della Procura antidoping del Coni avendo esplicitamente ammesso i suoi preconcetti») o, viceversa, ne inneggiano alla franchezza (Fanini, patron di Amore e Vita: «Il procuratore meriterebbe il Nobel: il suo è lo sfogo di chi combatte con fatica contro il sistema doping»), il dibattito è aperto al di là della dovuta, e doverosa, precisazione del Coni, che ieri ha cercato di smussare i toni.


Al presidente Petrucci e al segretario Pagnozzi, Torri ha spiegato che il concetto di liberalizzazione del doping non andava interpretato come un’apertura verso la depenalizzazione del reato ma come lo sfogo, espresso forse in modo paradossale, di una persona che da anni lotta con il problema. Piena fiducia a Torri, quindi, ricordando i suoi successi nello scardinare l’omertà del sistema spagnolo, ottenendo il bando internazionale di Alejandro Valverde, pesce grosso dell’Operacion Puerto.

Contador e dintorni

Il caso Contador, ben prima delle uscite di Torri, aveva toccato i nervi scoperti del grande ciclismo. Il numero uno assoluto, re del Tour, pescato positivo al clenbuterolo e inchiodato dall’inchiesta giornalistica del New York Times (seconda positività e forti sospetti di emotrasfusione), era stato il colpo di grazia su un ambiente che cercava faticosamente di risollevarsi. Le confessioni di Bernhard Kohl, terzo alla Grande Boucle 2008, poi squalificato per doping, convalidano i ragionamenti di Torri: «Vincere il Tour senza doparsi è impossibile. Io stesso in carriera sarò stato testato 200 volte e 100 avevo doping in corpo: 99 l’ho fatta franca, una mi han beccato. I corridori continuano a doparsi perché sanno di avere ottime chance di non essere scoperti, nemmeno l’introduzione di nuovi test li scoraggia». Il gioco vale sempre la candela, insomma. È nella testa, infatti, oltre alle iniezioni intramuscolari, alle flebo e alle trasfusioni, il tarlo del ciclismo.

Il futuro è un’ipotesi

Non è una resa, non può esserlo. «Il divario tra doping e antidoping si è fatto più sottile — ama dire Francesco Botré, direttore del laboratorio di Roma, lo 007 italiano più apprezzato all’estero —. Nessuna sostanza è invisibile per sempre». Come potremmo permettere, sennò, che i giovani talenti sognino ancora di vincere Giro e Tour? Per Francesco Moser, indimenticato fuoriclasse, papà di Ignazio, il campione italiano juniores che dal 2011 lascerà casa (il Trentino) per correre con una squadra di Brescia, la materia è incandescente. «Cosa dirò a Ignazio? Niente, perché mi fido di lui e delle persone a cui lo affiderò. La questione vera sono i test, che dovrebbero dirci subito, e con certezza, chi è dopato e chi no. Contador ha vinto il Tour tre mesi fa e scopriamo che è positivo adesso? Ignazio prende il volo all’età in cui io cominciavo, 18 anni. Sono dieci anni che corre in bicicletta. E io, certe volte, mi auguro che sia già stufo».

Gaia Piccardi
dal Corriere della Sera

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