La Stampa. Ballero, un atipico purosangue toscano

| 08/02/2010 | 11:33
Pochi giorni fa, alla vigilia della corsa di Donoratico, Franco Ballerini era in compagnia di Paolo Bettini e di un amico comune, che domandò loro chi glielo facesse fare. In sintesi, se avessero ben chiari in testa i pericoli nascosti nelle pieghe delle corse automobilistiche, una passione che li rendeva fratelli ancor più di quanto già non fossero. Ballerini più o meno rispose così: «Quei rischi non sono nulla rispetto ai brividi provati da corridore». Il destino purtroppo non fa quei distinguo. Per «Ballero» aveva deciso diversamente.
Ballero: tutti lo chiamavano così per abbreviare ma anche per creare un senso di complicità con un uomo che non chiedeva di meglio. Sempre disponibile, educato sia quando correva che nella veste di commissario tecnico, poi. Gliel’avevano cucita addosso, quella seconda veste, nel 2001, pochi mesi dopo la sua ultima corsa, la mitica Parigi-Roubaix che l’aveva reso celebre. «Merci Roubaix», c’era scritto sulla sottomaglia che aveva sfoggiato al velodromo della cittadina francese subito dopo l’arrivo. Si era classificato appena trentaduesimo, ma tutto il pubblico era scattato in piedi a tributare l’ultimo applauso a uno dei campioni che avevano scritto la storia della corsa.
Eppure l’approccio con quella sfida unica al mondo, pavé polvere sofferenza, una gara da fachiri, non aveva sorriso al Ballero. Nel 1993 aveva trascinato in fuga il francese Duclos-Lassalle che stava mangiandosi la lingua per stargli a ruota. E implorava: non staccarmi, ho tutta la famiglia che mi aspetta sul traguardo... Un trucco vecchio come il mondo, nel ciclismo, ma spesso chi coltiva buoni sentimenti ci casca. Il Ballero stava già alzando le mani sul traguardo quando Duclos-Lassalle lo pugnalava alle spalle, lo bruciava per una gomma. «Smetto di correre - disse quel giorno -, non voglio finire come Poulidor e tanti altri, gli eterni secondi». Per fortuna ci ripensò. Da allora due vittorie, un terzo, due quinti e un sesto posto. Perciò in Francia lo gratificarono del titolo «monsieur Roubaix» e gli diedero pure la cittadinanza onoraria di quel grande borgo nero di carbone ai confini con il Belgio.
Monsieur Roubaix è un’etichetta che riassume una carriera, perché dopo le primavere ruggenti, complice un’allergia che lo tormentava a maggio e giugno, si accontentava di fare il perno, il suggeritore delle sue squadre. Così il passaggio al ruolo di citì azzurro, favorito dal no di Beppe Saronni all’offerta della Federciclismo, sembrò a tutti logico anche se il Ballero a quel tempo, era il 2001, aveva soltanto 37 anni. Dimostrò subito grande maturità anche dall’ammiraglia, perché era bravo ma anche furbo e umile il giusto, si era messo nelle mani di Alfredo Martini e ascoltava i suggerimenti del vecchio lupo dopo aver conquistato la sua fiducia correndo cinque Mondiali al suo servizio da perfetto regista. Diciamo che Martini, ai suoi tempi, per andare a caccia del Mondiale abbinava la sapienza tattica a un pizzico di libertà, di estro diceva lui, da lasciare ai corridori, perché in corsa non si sa mai. Il Ballero era più rigido, la sua doveva essere una squadra di soldati votati tutti al capitano unico. Venne criticato qualche volta, perché quando il capitano faceva cilecca non aveva altri colpi in canna, ma alla lunga i risultati gli hanno dato ragione. Durante la sua gestione, quattro maglie iridate (Cipollini, due volte Bettini, Ballan) e un titolo olimpico (ancora Bettini ad Atene 2004).
Il Ballero era sposato con Sabrina, due figli maschi. Gran tifoso dell’Inter, si affacciava volentieri ad Appiano Gentile. Non aveva trasmesso ai figli il dna avuto in eredità dal padre, un buon dilettante del pedale. Entrambi i suoi eredi si erano dedicati al calcio, il maggiore anche con buoni risultati. Ballerini era un toscano purosangue ma anche un po’ atipico, senza la lingua sferzante e la battuta velenosa sempre in tasca. Forse perché le sue radici fiorentine erano piantate nella zona del Mugello che già aveva dato i natali a Gastone Nencini, un altro come lui, un po’ «piemontese» per così dire. Ma era tutt’altro che glaciale. Il presidente del Coni, Gianni Petrucci, ricorda ancora come venne lanciato in aria dal Ballero sul traguardo di Atene, dopo il successo di Bettini. Aveva tanta adrenalina dentro, monsieur Roubaix, e ogni tanto aveva bisogno di scaricarla. Forse anche per questo, da due anni a questa parte, aveva scelto i rally.

da La Stampa a firma di Gianni Romeo
 
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