Il Giornale. Ballerini, un destino da navigatore

| 08/02/2010 | 11:25
Saluto un amico: credo che saranno in molti a dire questa stessa frase, perché Franco Ballerini era insuperabile nel farsi amici. Era paziente, mansueto, tollerante. Ascoltava, mediava, smussava. Piaceva a tutti, gli piacevano quasi tutti. A 45 anni stava diligentemente costruendosi una sua solida e indistruttibile saggezza. Un po’ sfruttando l’indole personale, un po’ succhiando pazientemente dal biberon senza fondo del suo papà sportivo, quel magnifico e argutissimo maestro di vita che risponde al nome di Alfredo Martini, predecessore sull’ammiraglia azzurra del ciclismo.
Gran bella coppia, questa. Unica nel mondo dello sport italiano, ma forse mondiale: l’uno col doppio degli anni dell’altro, capaci di capirsi con un semplice battito di ciglia. Tra tante storie di cinismo e di interesse, una storia romantica. Il grande vecchio che impara ad amare l’erede mentre ancora è un suo corridore in nazionale, quindi il naturale passaggio di consegne, quando i limiti dell’età impongono al glorioso cittì di mettersi comodo. Da Martini a Ballerini: fanno talmente rima, che diventano una cosa sola. Tante vittorie prima, altrettante vittorie poi. Dirà sempre Ballerini: «Per me, Alfredo è come un padre». Dirà sempre Martini, ripetendolo in lacrime soprattutto adesso: «Per me, Franco è come un figlio». Ci vorrà del tempo, per accettare l’idea di non vederli più insieme.
Che ci faceva un cittì della nazionale su una macchina da rally? Sono in molti a chiederselo adesso, davanti alla notizia agghiacciante. Risponderei così: Ballerini non era fuori posto, o fuori di testa, stava semplicemente godendosi una passione. Non era uno di quegli sfizi che improvvisamente esplodono negli uomini di mezza età. Ballerini ha amato il motocross da ragazzo, ha amato le pietre della Roubaix da corridore, adesso amava il rally a quattro ruote. Non mi sembra neppure forzato, o fintamente poetico, leggere in questa trafila un po’ tutta la metafora di una vita intera: Ballerini non amava le passatoie rosse, si sentiva a suo agio sui terreni sconnessi. I sentieri fangosi del motocross, il pavé tritaossa della Roubaix, gli sterrati ghiaiosi del rally: sempre sobbalzi, scosse, botte alle reni. Per non uscire di strada, tanta concentrazione, tanto carattere, tanta resistenza, e un ottimo colpo d’occhio: come nella vita. Senza i talenti del fuoriclasse, Ballerini ha costruito le sue fortune soffrendo molto sui terreni impervi. Da corridore ha vinto due Roubaix, da cittì ha vinto quattro mondiali e un’Olimpiade: sempre e comunque sudandosi tutto, con metodica applicazione, senza aspettare regali caduti dall’alto. Come persona aveva garbo e toni delicati, come agonista era tenace e brutale come un primitivo. Questa forza rivestita di velluto l’aveva espressa in tanti momenti estremi della vita sportiva, fango-ghiaccio-polvere, ma soprattutto nei giorni difficili di una pesantissima prova familiare: la malattia del suo figlio più piccolo, fortunatamente poi risolta con un delicatissimo intervento chirurgico. Aveva questo di bello, il gigante della Roubaix, il cittì d’oro: sapeva incassare vittorie e sconfitte, gioie e sofferenze, belle notizie e brutte novità, senza mai sbandare paurosamente. Aveva una sua bussola sempre davanti, non perdeva il senso d’orientamento, non si faceva fuorviare da nulla. Sapeva trovare la strada per sé, sapeva indicarla anche agli altri. Come nei rally: era un grande navigatore. Tante volte l’ha indicata pure a Paolo Bettini. Altra storia particolare, parallela a quella con Martini. Se il glorioso cittì era il padre, Bettini era il fratello minore. All’inizio si erano ritrovati in nazionale, Ballerini come cittì, Bettini come capitano. Poi, una medaglia via l’altra, ma anche con qualche sonora sconfitta, il legame si era rinforzato come fosse di sangue. Quando poi Bettini aveva smesso di correre, Ballerini se l’era di nuovo chiamato vicino, come assistente, a partire dall’ultimo Mondiale di Mendrisio. Già si profilava netto il futuro: dopo che Martini aveva allevato Ballerini, questi aveva cominciato ad allevare Bettini, per una nuova e futuribile successione in salsa toscana. Nell’attesa, a tempo perso, si divertivano a correre in macchina, lungo gli itinerari stravaganti del fuoristrada, qualche volta anche uscendo di strada. Non erano un equipaggio: erano una strana coppia, che sapeva gustarsi il gusto pieno del proprio hobby, prima di tornare al lavoro, sulle cose serie, migliore di prima. Dietro alla salma e al ricordo di Ballerini ora c’è già un lunghissimo corteo. Il mondo che l’ha amato sta cercando di dimostrarglielo. Il ciclismo, in particolare, perde la sua faccia rispettabile e rispettata, in giro per il mondo. Ballerini, dopo e con Martini, perpetuava un mezzo prodigio: suscitava e raccoglieva stima a livello internazionale, più di quanta ne meriti il movimento rappresentato. Se l’Italia della bicicletta ha ancora una sua autorevolezza e un suo prestigio, è soltanto grazie all’autorevolezza e al prestigio dei suoi cittì azzurri. Non è l’omaggio scontato e ruffiano davanti a un giovane uomo di 45 anni che muore troppo presto, nel modo più inaccettabile: è la pura e semplice realtà. In fondo, si vive per questo: per fare qualcosa, per lasciare qualcosa. Franco Ballerini, nel breve tempo che il cielo gli ha concesso, ci è pienamente riuscito. È una cosa bella. È un segno che resta. Ed è il motivo per cui adesso, oltre a piangerlo, si ritrovano già tutti a rimpiangerlo.

da «Il Giornale» dell'8 febbraio 2010 a firma Cristiano Gatti
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