
Giovanni Davite, Console Onorario d’Italia a Kigali, dopo aver fatto visita alla selezione azzurra nei primi giorni di questo Campionato del Mondo, offrirà questa sera un ricevimento ai componenti della Nazionale, tra questi anche il Presidente della Fci Cordiano Dagnoni.
Lo incontriamo in un luogo funzionale rispetto alla sua abitazione e strategico rispetto al percorso, all’interno di un bel locale che si trova esattamente sul limitare tra pavè (ormai la Cote de Kimihurura è un tratto distintivo della rassegna iridata) e l’asfalto.
Davite, con la sua testimonianza, permette di meglio addentrarci nel Paese che ospita la manifestazione.
«Una nazione che non si abbandona ad imprecisata speranza nel futuro ma vuole diventare parte attiva di cambiamento, anche mostrandosi in questi giorni attraverso un evento sportivo di tale portata, non senza ulteriori e clamorosi orizzonti, come ospitare una tappa di Formula 1. Tutte iniziative che accrescono la visibilità turistica».
Quando inizia il suo rapporto con il Rwanda?
«Da bambino: sono nato nel 1959 in Congo, poi nel 1966 la mia famiglia, di origini vercellesi, si trasferì qui. Papà era farmacista, lavorava per una catena legata alla multinazionale Unilever e fu assegnato a Kigali. In quegli anni non era la capitale vasta di oggi, era poco più di un agglomerato che occupava una collina appena, tutt’attorno era autentica savana, tanto che ricordo le azioni predatorie di un leopardo in piena città».
Era ancora un Paese d’impronta coloniale, vero?
«Sì, malgrado nel caso rwandese e del vicino Burundi si trattasse di un protettorato. Immaginate quella collina con edifici residenziali e ministeri, più una parte residenziale. Poi basta».
Lei ha però conosciuto professionalmente altri contesti geografici…
«Sono ingegnere chimico e ho frequentato una scuola di management inglese, inserendomi nel settore petrolifero ed occupandomi in Inghilterra di gas naturale compresso. Ma Kigali era sempre un riferimento di famiglia».
Come affrontò le ansie legate al genocidio?
«Attraverso, quando era possibile, rocambolesche telefonate ai miei parenti, genitori e fratello più mia cognata, i quali furono evacuati a Nairobi. Ripartirono da capo al loro ritorno, poche settimane la fine di quella assurda e tragica pagina di storia, fatta di un milione di morti di etnia tutsi. C’erano cadaveri in strada, dolore ed una cappa di desolazione. Mi piace ricordare il ruolo dell’ambasciatore Costa, che riuscì con coraggio a salvare dalla furia genocidaria tante persone».
In quanti sanno che Emergency muove i suoi passi iniziali in Rwanda?
«È così, Gino Strada fu ospite, subito dopo il Genocidio, a casa di mio fratello, con alcuni altri medici e iniziò proprio qui l’esperienza umanitaria così tanto ramificatasi nel tempo. Ricordò il periodo rwandese nel libro Pappagalli Verdi».
Di cosa si occupa la vostra attività imprenditoriale oggi?
«Si tratta di un’attività fondata nel 2001 e costituita con mio fratello: si articola in due settori, quello farmaceutico attraverso Kipharma e agriveterinario con Agrotech. In tutto abbiamo duecento lavoratori».
Come articola il ruolo di console onorario?
«Nella piena consapevolezza che l’Italia e in genere le rappresentanze diplomatiche europee possono esercitare un’azione incisiva importante, riconoscendo a livello economico il variegato potenziale di una nazione che è stata capace di guardare al futuro malgrado quanto patito nel 1994».
Ma lei che Rwanda immagina dal suo punto di vista?
«Posso constatare che il tasso di crescita ogni anno sia da parecchio tempo del 7 per cento, indicatore favorito dalla parziale cancellazione debitoria avvenuta nel 2006. Qui si è partiti da solo il 5 per cento di popolazione con accesso all’energia elettrica ed oggi siamo al 70, dato che ha inciso positivamente dal punto di vista delle condizioni di vita. Commisurate alla necessità di implementare benessere e colmare certe differenze (pensiamo al tema malnutrizione, nda)».
E cosa vede dall’osservatorio della camera di commercio europea da lei presieduta?
«A livello comunitario sono stati messi in campo progetti qualificati e incisivi, penso al settore delle rinnovabili o dell’agricoltura. Il nostro organismo raggruppa 180 associati ed è una realtà pronta ad intercettare nella totalità la fase di sviluppo di una nazione che rifugge da narrativa semplicistica di questioni complesse come i rapporti tra Stati in questa regione africana, registrando comunque negoziati di pace a mitigare le forti tensioni del febbraio scorso».
Console Davite, immagina una nuova Svizzera?
«In buona sostanza, sì. Il paragone calza di più rispetto a Singapore, visto qui il mare non c’è. E poi Kigali può essere considerato centro finanziario come Ginevra, attirando importanti capitali dai paesi africani. Altri assi strategici sono gli investimenti nel ramo immobiliare, il turismo medicale, servizi di software e prodotti ad alto valore aggiunto».
Parole che non nascondono un auspicio: quale?
«Il Rwanda è pronto ad ospitare una vera e propria ambasciata, seguendo l’esempio di tutti gli altri Paesi del G7. Oggi la rappresentanza è a Kampala, in Uganda».
Passando al ciclismo, l’abbiamo sorpresa mentre guardava anche la replica del Trofeo Matteotti…
«Confermo, mi piace lo sport e sono vicino al mondo delle due ruote. in generale durante i grandi giri a tappe e quando ci sono le classiche monumento cerco di ritagliarmi spazio per assistere alle dirette. Mi spiace per la defezione di Pellizzari, ma sono pronto a sostenere tutti i nostri portacolori italiani. A gioire per loro, da rwandese quasi acquisito».