
Se settantasei anni dopo il primo pezzo sul ciclismo viene ancora letto e studiato, derubato e citato, imitato e copiato, venerato e ripubblicato, significa che Gianni Brera è nella letteratura italiana. Oltre i paradossi e i neologismi, oltre le cronache e le polemiche, oltre le intuizioni e i narcisismi, addirittura oltre lo sport – che sia calcio o boxe, atletica o ciclismo, bocce o sci -, significa che Gianni Brera ha consolidato nel tempo una sua originalità che lo premia e lo distingue, che lo renderà letterariamente immortale. Certo, se non fosse vissuto nel Novecento, se non fosse nato nella Padania dei boschi e dei sabbioni, se non avesse fatto il paracadutista e il partigiano, se non avesse scritto nell’età dell’oro del giornalismo, non sarebbe stato quel Gianni Brera, ma un altro Gianni Brera, però altrettanto originale e distinto.
Il Saggiatore ha pubblicato una frammentaria antologia delle opere di Gianni Brera “Sul ciclismo” (115 pagine, 10 euro, formato tascabile). Gemme tratte da “Principe della zolla” (a cura di Gianni Mura, il Saggiatore, 2015), “L’Anticavallo" (Book Time, 2012) e “Coppi e il diavolo” (Book Time, 2009). Frasi e brani, come sospiri e ragionamenti, come ricordi e testimonianze. Ciascuno capace di vita propria, uno per giorno, da imparare a memoria, da imprimere sotto pelle. E tutti folgoranti, commoventi, seducenti. Divisi, per ordine, in sei capitoletti: “Quando si correva per rabbia o per amore”, “Quando c’erano i campioni”, “Una vita da gregario”, “Tra l’inferno e i paradisi”, “Bartali, l’acquasanta” e “Coppi, il diavolo”.
Gianni Brera era definitivo quando spiegava la bicicletta, “In fondo, la bicicletta altro non è che una povera bonaria concessione alla nostra ansia di andare”, e il ciclismo, “Il ciclismo mi è subito apparso qual era: un tumultuoso epos di poveri”, nonché il giornalismo del ciclismo, “La canzone delle loro gesta assumeva i ritmi concitati ma umili della prosa quotidiana”. Gianni Brera era formidabile quando dipingeva i corridori: “C’era nel volto di Pambianco una desolata bontà che mi offendeva. I suoi occhi, d’un grigio chiaro molto alemanno, si inumidivano fino a parer liquidi e prossimi al pianto”. Gianni Brera era una penna tempestosa e impetuosa: “Merckx, questo fiammingo dal nome simile a una imprecazione rabbiosa, ha in sé la possa degli antichi vichinghi e dei capitani spagnoli che ne hanno ingentilito i tratti fisionomici”. Gianni Brera sapeva trasformare panorami in parole: “Voglia di impennare su Enna, arroccata e arcigna. Ne indovino il profilo controsole. Uno stradone liscio e veloce mi lusinga. Torri di miniere. Vaste fiumare che specchiano il cielo. Nubi solenni, o svagate, o folli”. Gianni Brera aveva visioni trascendentali: “Il Dio Tempo si è seduto su un paracarro e scandisce i minuti con l’inesorabile ghigno di un giustiziere”.
Settantasei anni dopo il primo pezzo sul ciclismo Gianni Brera pedala ancora davanti al gruppo. Imprendibile. Irraggiungibile.
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