
Almeno una bellissima storia da raccontare: la propria. Mi riferisco ai corridori: attori stradali e pistaioli, protagonisti di cotte e cadute, giorni in cui non sentono la catena e altri in cui non vanno avanti neanche a spinta, barcollanti tra forcelle alpine e forche appenniniche, capaci di riempire pagine e calamitare platee. La regola dell’almeno una bellissima storia da raccontare è sempre valida, ma potrebbe ammettere eccezioni anche per qualche giornalista. Come Maurizio Ruggeri. “L’ottava arte” (Minerva, 174 pagine, 15 euro) è la sua bellissima storia.
Ruggeri era la voce di “Zona Cesarini”, e per voce s’intende competenza e saggezza, garbo e poesia, equilibrio e profondità, passando da atletica a sci, attraversando calcio e boxe, sfiorando curling e tennistavolo, abbandonandosi al ciclismo. Romano, dal sogno (“Da piccolo”) di fare il poliziotto all’idea (“Al liceo”) di diventare un medico, Ruggeri si sarebbe dedicato al giornalismo sportivo (“Avevo preso di mira il ciclismo, il Giro d’Italia”), perché “pensavo che attraversare il Paese in lungo e largo, con le strade chiuse al traffico, doveva essere una cosa che non capita tutti i giorni”. Vero, verissimo, ma come? Il primo confronto lo ebbe addirittura con Marcello Mastroianni, abitava nello stesso quartiere, talvolta lo si incrociava “sottobraccio alla sua prima e unica moglie, anche se non vivevano più insieme da tempo”. Mastroianni lo avvertì: “Quando vede Robert De Niro che prima fa il pugile e poi il sassofonista, cosa crede che faccia? Fa finta!”. A distanza di mezzo secolo, Ruggeri è convinto che “lo sport non è finto, lo sport non tradisce e a volte si trasforma in arte”, anche se adesso “viviamo ormai da tempo nell’evo della spettacolarizzazione, alla ricerca spasmodica del sensazionalismo e dell’esasperazione mediatica”.
Ruggeri ha il ciclismo nel cuore, negli occhi, nella pelle. Ha incrociato Marco Pantani (“Sembrava proprio un tipo tranquillo, era solo all’inizio della sua folgorante e drammatica carriera”) e Abraham Olano (“Con il cerchione che batteva sull’asfalto e la ruota posteriore che sbandava”, “funambolo in equilibrio su una ruota sola”, “perdere un mondiale per una foratura sul rettilineo conclusivo non era possibile”), ha incontrato anche maestri di giornalismo sportivo come Mario Fossati (“Ogni tanto i dava la sua strizzatina d’occhio”) e di giornalismo e letteratura come Franco Cordelli (“Non mi si venga a dire che quello che conta è vincere – scriveva Cordelli -. Io voglio sapere che cosa si vince. Poi voglio sapere come si vince. Infine voglio sapere perché si vince”), esplorando la geografia (“Ci sono delle cose che mi portano in paradiso. Cos’altro mi porta lassù? C’è qualcos’altro in grado di farmi stare come quel giorno d’estate in cui mi cadde la neve sulle spalle negli ultimi tornanti dello Stelvio, quando oramai sapevo di avercela fatta?”) e scavando nella storia (Milano-Sanremo del 1947, “Mario Ricci, staccato di diciotto minuti e trenta secondi, regolò la volata dei superstiti bruciando il suo compagno di squadra della Legnano, Gino Bartali. Fausto Coppi stava già apparecchiandosi per la cena”), affrontando i rischi del mestiere (Parigi-Roubaix del 1992, “avevo avvicinato Mario Cipollini appena dopo aver chiuso il secondo giro del Vélodrome”, “mi serviva una battuta davanti al registratore, mi mandò a quel paese, ne aveva ben donde, era distrutto dalle sollecitazioni delle pietre, coperto di fango dagli scarpini alla fronte”). E raccontando anche Bob Dylan e Carlos Monzon, Jeff Beck e Steve Prefontaine, Wim Wenders e Sonny Liston.
Non era fatto per vivere da inviato, Ruggeri, è lui stesso a spiegarlo: “Ho smesso di chiedermi perché, se l’ho fatto per pigrizia, per non spingere sull’acceleratore, per mancanza di talento, o chissà cosa. E’ stato così, e basta. Ho preferito starmene seduto sullo sgabello davanti a un microfono per parlare di sport e fare qualche digressione su altre cose”. Mai stato tipo da poltrone, Ruggeri, e comunque meglio così, per noi ascoltatori. Perché Ruggeri, fortunatamente né su una volante da poliziotto né da uno studio da medico, su uno sgabello (impossibile farlo da una poltrona) da giornalista sprtivo, per decenni ci ha svelato certezze e dubbi, volontà e fragilità, regole e trasgressioni, scene e soprattutto retroscena. Insomma, quello che sta dentro campioni e gregari. L’umanità.
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