
Giro d’Italia 1950. Sedicesima e terzultima tappa, da L’Aquila a Campobasso, 203 km appenninici, tormentati e polverosi, con il temutissimo Macerone. Era l’11 giugno. Indro Montanelli sosteneva che “il Giro d’Italia ha uno strano potere: quello di trasformare in domenica ogni giorno della settimana”. Ma quel giorno era comunque una domenica. Una domenica santa, una domenica santissima, una domenica che più santa di così non poteva esserci. Soprattutto per Pasetta, abruzzese di Barrea.
Se lo chiamavi Tommaso, Tommaso era il suo nome di battesimo, neanche si girava. Se lo chiamavi Tommaso D’Amico, D’Amico era il suo cognome di famiglia, neanche. Per tutti, a cominciare da sé stesso, era Pasetta, definitivo soprannome dopo i temporanei Pasuccio e Pasellino derivati da quel Pasotti, Tommasuccio Pasotti, corridore locale. E anche Pasetta era innamorato del ciclismo. Aveva nove anni, era il settimo di otto figli - papà macellaio, mamma tuttofare -, dopo la guerra i primi sei figli a dormire per terra, gli ultimi due in due cassetti del comò, Pasetta (sotto) si lamentava quando il fratellino (sopra) si faceva la pipì addosso, prima addosso a sé poi addosso a lui, o date un secchio a lui, così pregò i genitori, o date un ombrello a me.
Quella domenica in maglia rosa c’era Hugo Koblet, che scandalo, uno svizzero. Poi Gino Bartali a più di cinque minuti, Alfredo Martini e Ferdy Kubler a quasi nove. Fausto Coppi, caduto sulle Scale di Primolano, si era ritirato con il bacino fratturato. Il giorno prima, sabato, a L’Aquila, si era imposto Giancarlo Astrua, da solo, per distacco, con il primo inseguitore, Luciano Maggini, a cinque minuti. Ma per Pasetta esisteva soltanto Bartali. “Il mio eroe”. Forse di più.
“Il Giro d’Italia si seguiva alla radio, in paese ce n’era una, al bar. Ma quel giorno il Giro passava vicino a casa, mi feci coraggio e chiesi a mio padre il permesso di andare a vedere i corridori, il mio Bartali. Dal paese partivano comitive di gente sui camion. Mio padre disse di sì, ma a una condizione: ‘Prima devi stendere dodici pelli di agnello al sole’. Lo feci. Ma quando stesi l’ultima pelle, i camion erano già partiti. Non mi persi d’animo e a Rionero Sannitico ci andai a piedi. Senza mangiare. Cinque, dieci, quindici, diciotto chilometri. Poi svenni. E non vidi Bartali”.
Pasetta avrebbe visto Bartali solo 37 anni dopo. Giro d’Italia 1987. Settima tappa, la Rieti-Roccaraso, 205 km appenninici, nervosi e asfaltati, con lo storico Piano delle Cinque Miglia, che tanto piano non è mai stato. Era il 28 maggio, un’altra domenica per Montanelli, un giovedì sul calendario. “Bartali seguiva, anzi, anticipava il Giro in macchina. Ma per me, due o quattro ruote, era lo stesso. Bartali, stavolta lo vidi, scalai le tribune, lo raggiunsi e quasi svenni. C’era anche Bruno Raschi, che di me avrebbe poi scritto sulla ‘Gazzetta dello Sport’. Mi feci coraggio e invitai Bartali al mio ristorante, lui accettò e venne”. La scintilla era diventata fuoco, falò, incendio. Giro d’Italia 1993, dev’essere stata la quarta tappa, il 25 maggio, un’altra domenica per Montanelli, un martedì per il calendario, dal Lago di Scanno a Marcianise, 179 km appenninici, complicati e meravigliosi, con il Monte Godi, Rionero Sannitico e l’ormai meno temuto Macerone, e il gruppo passava proprio a Barrea. “Bartali era in macchina con il figlio Andrea. Li bloccai davanti al mio campeggio La Genziana. Gino mi invitò a salire in macchina con loro. Due chilometri insieme, l’eterna felicità”.
Pasetta ha 84 anni. La sua vita l’ha raccontata in un libro. S’intitola, semplicemente, “Pasetta racconta”. Trecentocinquanta pagine tra ricordi e poesie, una anche per Bartali, una anche per Pantani. Pasetta e le sue cinque lauree (“Fattologia, spontaneologia, seriologia, sincerologia e esperienzologia”), Pasetta e i suoi sette anni e mezzo a New York (“Con casa nel New Jersey”) facendo sedici lavori (“Da vucumprà a carpentiere, da una catena di montaggio a un negozio di profumeria, da garzone a tagliaerba…”), Pasetta e i suoi cartelloni (“Pantani sarai il dominatore di Campo Imperatore”) e le sue scritte (“Per Di Luca la tracciai sulla neve”), Pasetta e i corridori abruzzesi (“A Taccone dissi che al Tour, lo spagnolo Manzaneque preso a colpi di pompa, non avrebbe dovuto farlo”, “Di Luca e il doping, gli era capitato una volta, era abbastanza”), Pasetta e Adriano De Zan (“Ma il fenomeno era il suo aiutante Guerrino Farolfi, scriveva tutto a penna, prendeva i tempi e non sbagliava mai”), Pasetta e i suoi 66 Giri d’Italia sul bordo della strada, Pasetti e questo Tour de France davanti alla tv (“Mi fa impazzire Pogacar, ma ho una paura addosso…”), Pasetta e la straordinaria somiglianza con Giuseppe Garibaldi (“Con la divisa mi stupisco anch’io: ci somiglio veramente”). Pasetta e il ciclismo: “In due parole, anzi, tre, la mia vita”.
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