L'ORA DEL PASTO. QUELLE DUE BICI IN VIAGGIO VERSO L'AFRICA (E L'AVVENTURA DEL LORO PROPRIETARIO)

NEWS | 13/06/2025 | 08:17
di Marco Pastonesi

Da Roma in Africa su un Land Rover a nafta di seconda terza forse quarta mano, un’audiocassetta dei Dire Straits sparata a tutto volume, trasportando tre arnie vuote e due biciclette. Perché due biciclette se era da solo? Alla frontiera con l’Algeria, a chiederselo, erano le stesse guardie, meticolose e lente. Non potevano immaginare che quello fosse il suo piccolo capitale, da utilizzare come merce di scambio.


Non era un destino dignitoso per le biciclette, e forse non è neanche uno stratagemma dignitoso adesso per poter scrivere di un libro capace di stregare. S’intitola “Di api, di scuola e altre storie”, e fra queste storie ci sono anche le due biciclette da mercanteggiare, lo ha scritto Angelo Camerini, 144 pagine per la Fox & Sparrows a 16 euro. Storie di vita vera, di vita vissuta, e le storie di vita – sono d’accordo con l’autore – sono così genuine, così sorprendenti, così ricche soprattutto quando sono povere che valgono più di quelle romanzate, immaginate, fantasticate.


Camerini è un abruzzese di nascita, un romano di adozione, un sessantottino di formazione, un maestro elementare di esportazione (in Egitto, e in un altro libro, “Maestro d’Egitto”, Edizioni Etabeta, racconta quegli anni magistrali), un apicoltore di passione e studio, ispirazione e vocazione, trasmissione e addirittura trasgressione, soprattutto quando cercava di insegnare ai bambini - attraverso regine e operaie, bugni villici e favi mobili, telaini e affumicamento, sciamatura e smielatura – forse il senso della vita, ma in maniera poco ligia ai protocolli dei provveditorati e poco adatta alla elasticità dei presidi.

“So raccontare solo quello che mi è successo”, esordisce Camerini. E gli è successo non tutto, ma un po’ di tutto. A cominciare dai viaggi in Africa, avversati da piccole corruzioni, piccoli intrighi, piccole ripicche, ma tutti con grandi conseguenze, come dover girare la macchina e tornare indietro a casa, però anche ricchi di enormi soddisfazioni, come sopravvivere al deserto polveroso, al cielo stellato, centellinando soldi e risparmiando cibo, godendosi incontri casuali, ospitalità inattese, alleanze improvvise.

Camerini si racconta scoprendosi, spogliandosi, non una questione di pudore, anzi, di mancanza di pudore, ma bisogno di sincerità, voglia di verità. E lo fa con leggerezza anche quando rivela tragedie familiari, quando ammette fallimenti sentimentali, quando confida indigenze economiche, quando rivanga angherie subite, nulla di trascendentale, la nostra vita non è fatta di eventi trascendentali, semmai di infinite piccolezze, nel suo caso articoli non pubblicati, articoli pubblicati ma non firmati, articoli pubblicati e mai pagati, articoli pubblicati eppure abilmente nascosti sotto titoli insignificanti, fuorvianti o impropri.

Nel trattare le api, Camerini si ostina a non usare caschi, guanti, tute. A differenze delle vespe, le api – se avvicinate in modo corretto: lentamente, anzi, lentissimamente, meglio retrocedendo che avanzando – non attaccano e non pungono. Quelle rare volte in cui è successo che un’ape pungesse uno scolaro colpevole di un movimento rapido o pauroso, Camerini è stato salvato dai genitori: ben gli sta, se lo meritava, se lo ricorderà, la prossima volta farà più attenzione. E in fondo, in fondo a quell’alveare che sono le nostre città, in fondo a quell’avventura (o quella disavventura) africana che sono le nostre esistenze, in fondo a quel telaino che sono le nostre scuole o lavori o comunità, Camerini si muove così: con leggerezza, con onestà, con curiosità, disarmato anzi pacifico, consapevole, e con il dono dell’ironia, spesso dell’autoironia. Sa prendersi in giro.

Comunque, alla fine di una perlustrazione esagerata, eccessiva, guardando e riguardando il libretto di circolazione, il passaporto e quelle inspiegabilmente due biciclette, infine pagato il visto, almeno quella volta Camerini fu fatto passare. “Riluttanti, mi fecero cenno di andare, ‘Yalla Yalla’, qualcosa come ‘vattene’ e, sollevato, mi rimisi in marcia tra cartelli sempre più in lingua araba e sempre meno in alfabeto latino”.

E le due biciclette? Vendute. Per tirare avanti.


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