
Era così schivo, Claudio Michelotto, che della sua morte si è saputo solo quattro-cinque giorni dopo. Così schivo, così silenzioso, così ombroso, così lunare. Trentino di Roveré della Luna, una trentina di chilometri a nord di Trento, dove l’Adige crea un’ansa a forma di luna vicino a un bosco di roveri. Fra quattro mesi avrebbe compiuto 83 anni. Oggi sarebbe stato considerato un fuoriclasse, ma allora, l’epoca di Adorni, Gimondi, Motta, Zilioli, Bitossi… e soprattutto Merckx, emergere era proibitivo. E quasi proibito. Michelotto fu – parole scritte sull’Equipe – un talento inespresso.
Inespresso, ma fino a un certo punto. Dieci giorni in maglia rosa, Michelotto. Era il Giro d’Italia del 1971. La Corsa Rosa risaliva dal sud: Lecce, Bari, Potenza, il Gran Sasso. A Casciana Terme Michelotto sottrasse il primato a un conterraneo, Aldo Moser. Lo mantenne anche quando si espatriò in Jugoslavia e in Austria. La diciassettesima tappa scoprì l’eterno Glossglockner, Gimondi attaccò e fu accusato di favorire lo straniero, lo svedese Gosta Pettersson, e danneggiare il connazionale, Michelotto. Michelotto fu punito e umiliato – un minuto di penalizzazione – per spinte. La Scic, la sua squadra, minacciò di ritirarsi. Vincenzo Torriani intervenne a gamba tesa (non era il tipo da mani giunte), Scic e Michelotto rimasero in gara. La diciottesima tappa portava i corridori da Lienz a Falcade, 195 chilometri e quattro montagne da scalare, Tre Croci, Falzarego, Pordoi e Valles. Michelotto partì con 1’22” di vantaggio sul “vecio” (Aldo Moser aveva 37 anni e quattro mesi) e 2’02” su Pettersson. Gimondi attaccò ancora, Pettersson lo seguì fino al traguardo, Michelotto cadde sul campo, in discesa dal Valles, e giunse al traguardo insanguinato, quasi 10’ dopo gli avversari. “E’ la vita – sillabò -. Non ho dormito, stavo male fin da stamane, una foratura ha provocato il capitombolo. Volevo fare bene, queste sono le strade di casa mia. Mi si è afflosciato il tubolare posteriore, la bicicletta ha sbandato, sono volato sull’asfalto, sono rotolato giù per una ventina di metri. Sanguinavo parecchio, mi sono annodato un fazzoletto alla meglio, ho proseguito come in ‘trance’. Ma il telaio era storto, i freni non funzionavano, in ogni curva ero costretto a strisciare i piedi per terra. Ho cambiato bicicletta, negli ultimi chilometri sentivo soltanto il sangue che mi scorreva sul volto. Poi mi sono mancate le forze, non ho più capito nulla”. Precipitò al nono posto della generale. Il giorno dopo abbandonò il Giro. Si chiacchierò anche di guerra fra cucine componibili: Gimondi per la Salvarani, Michelotto per la Scic, Pettersson per la Ferretti.
Schivo, ma mai schiavo, Michelotto era stato azzurro fra i dilettanti (in squadra quando Gimondi vinse il Tour de l’Avenir), dal 1966 al 1973 tra i professionisti, capitano, luogotenente, battitore libero, comunque corridore vero. Vincitore di brevi corse a tappe (Tirreno-Adriatico nel 1968, Giro di Sardegna nel 1969), vincitore di classiche italiane (Agostoni nel 1968, Laigueglia e Milano-Torino nel 1969, Campania nel 1971 anticipando i velocisti a un chilometro dallo stadio dell’Arenaccia), vincitore di tappe (una al Giro d’Italia nel 1971, una al Giro di Svizzera nel 1972), leader nei gran premi della montagna (al Giro d’Italia nel 1969). Scalatore, ma anche cronoman, non gli si poteva chiedere di vincere in volata, non era il suo forte. Il suo forte era la regolarità. Il suo debole la sfortuna. Cadute, non solo quella del Valles, ma anche a Zurigo nel 1966 e al Tour nel 1970, rovinose, drammatiche, che lasciavano cicatrici e dubbi. E malasorte, Giro d’Italia del 1967, tappone dolomitico che finiva a Trento, la sua Trento, in corso Buonarroti, un uomo solo al comando, lui, “Michelotto ha staccato i compagni” annunciava lo speaker, poi un errore, Michelotto che si schiantò contro una balla di fieno, Adorni che volò al traguardo e Anquetil in maglia rosa.
Tolto il dorsale, Michelotto lasciò il ciclismo, mai la bicicletta. Macinava chilometri, ruminava pensieri, digeriva rimpianti. Alle corse non si vedeva mai. Ai giornalisti sfuggiva. Schivo, già detto e ridetto, oltre che mite ed educato. A coltivarne la memoria ci hanno pensato Franco Sandri con una pagina su Facebook e una mostra a Roveré della Luna, e Diego Nart nel libro “Oltre a Francesco” raccontandone la carriera. Un dignitoso silenzio fino all’altro giorno, quando se n’è andato, durante il Giro, senza voler disturbare, senza voler rubare spazio a eredi che ne ignoravano il valore.