
Non fece la vita del corridore. Svegliarsi all’alba, poi colazione, allenamento, cinque-sei ore in bicicletta, meglio il bagno della doccia, massaggi, cena, e dormire al tramonto. Per risvegliarsi all’alba, e di nuovo colazione, allenamento, cinque-sei ore in bicicletta… Tutti i giorni, di tutte le settimane, di tutti i mesi, di tutto l’anno, per tutti gli anni. No, Giuliano Biatta – è lui a confessarlo – non fece la vita del corridore. Eppure corse quattro anni da corridore professionista.
Biatta, perché non la vita del corridore?
“Perché ero giovane, perché il ciclismo era una parentesi, un angolo, una parte della mia vita, perché pochi studi, fino alla prima media a scuola, la seconda e la terza media alle serali, perché c’era da lavorare, a casa, in trattoria, lavare i piatti, servire a tavola, pulire i pavimenti, fare la spesa, occuparmi della cantina, imparare in cucina, perché non scommisi su me stesso, perché pensavo che bastasse fare il proprio dovere. E così mi mancava il fondo. E dopo 150 chilometri andavo in riserva. Finita la resistenza, lottavo per la sopravvivenza”.
Perché il ciclismo?
“Perché era un modo per scappare, evadere, andare in fuga, per fare fatica e stare bene dopo. Papà coppista, quando gli chiesi se mi potesse comprare una bicicletta, lui mi accontentò subito. La mamma era molto più prudente, pensava che fosse un pericolo, ed era anche molto più preoccupata, pensava che fosse una distrazione. La prima bici, acquistata a Lodi, era pesante come un cancello, anche se si chiamava Coppi ed era celestina come una Bianchi. La prima corsa proprio a Lodi, organizzata nel parco, una specie di abc dei ragazzini, indossavo una maglietta bianca che aveva impressa proprio la faccia di Coppi. La prima vittoria da esordiente, anche la seconda, tutte e due per distacco”.
Un campioncino?
“Quasi. Dilettante alla Passerini, un colosso, qualche vittoria e molti piazzamenti, compagno di squadra e anche di camera di Giovanni Battaglin, con lui passai professionista alla Inoxpran. Nel 1981 Giro e Tour, era il Tour de l’Avenir, aperto a tutti, dilettanti e professionisti, vedevo la testa della corsa, un quarto, un quinto e un ottavo posto di tappa, un modo di correre più aperto, pronti-via e pancia a terra, invece tra i professionisti a un certo punto si accende il turbo e si fanno sforzi disumani”.
Gregario?
“Il mio compito era stare vicino a Battaglin. Finché ce la facevo. Certi giorni ci riuscivo. Tirreno-Adriatico del 1981, prologo a Roma, quattro-cinque chilometri a cronometro, primo Moser, ‘se non t’impiantavi sul pavé…’ mi elogiò Davide Boifava, il nostro direttore sportivo. Gran premio di Camaiore, dopo il Giro del 1981, quel giorno vidi l‘arrivo, primo Saronni, io nono, ero così contento che, tornato in albergo, andai in spiaggia e mi tuffai in mare. Quattro giorni dopo, il Campionato italiano del 1981 a Compiano, 250 chilometri, dovevo fare il ritmo, tenerlo alto, primo Moser, Battaglin ventesimo, io con lui, ventiseiesimo, e Boifava mi fece i complimenti, e Alfredo Martini, il commissario tecnico, mi tenne in considerazione per i Mondiali, voleva inserire un giovane come premio e come esperienza, poi scelse Lorenzi, forse, chissà, anche perché toscano come lui. Nel 1982 Giro e Tour, era il Tour de France, arrivai fino a Parigi, ai Campi Elisi, fui chiamato nella postazione tv da Adriano De Zan, mi chiese – speranzoso – se avrei rifatto questa esperienza, risposi no grazie, e lui – deluso – mi tolse subito il microfono”.
Poi?
“Nel 1985 tornai alla trattoria di famiglia, La Speranza a Cavenago d’Adda, imparai dalla mamma l’arte del cuoco, lì ci voleva più fondo e più resistenza che nel ciclismo, sette giorni su sette, 12 ore di lavoro al giorno, ma tutto il giorno in ballo. Cucina casereccia, dunque lombarda, gli antipasti con i salumi, il cotechino, le frittatine…, i primi con i risotti in tutti i modi, compreso quello con il ragù di ribollita colata e quello con la zucca e il profumo di stracciatella e caffè…, i secondi dalla carne di cavallo marinata in vino rosso alla lepre in salmì…, e sempre i casoncelli fatti a mano…”.
Clientela?
“Affezionatissima. Ogni tanto anche i corridori. Guido Bontempi era un buon mangiatore, prediligeva il risotto alle pesche con code di gambero e profumo di liquirizia. Veniva qui il vecchio Remo Tamagni, poi barista a Lodi, con moglie e figlie, un brontolone che però il tempo aveva addirittura addolcito. Veniva qui anche il vecchio Tranquillo Scudellaro, poi agente di commercio, era lui che predicava la vita del corridore, ‘tutti i giorni di allenamento devi simulare un giorno di corsa’, si raccomandava, ‘tutti i giorni uscire in bici alle nove di mattina e tornare alle quattro di pomeriggio’, mi spiegava, ‘poi gambe all’aria e ti leggi La Gazzetta dello Sport’, mi concedeva. Se solo l’avessi ascoltato”.
E adesso?
“Chiusa un anno fa la trattoria, mi godo la casa, la famiglia, la natura e il ciclismo alla tv”.
Se sei giá nostro utente esegui il login altrimenti registrati.