
Corse il Giro d’Italia nel 1951 con la maglia gialla della Bartali-Ursus. In prestito: la sua squadra ufficiale era la Legnano-Pirelli, maglia verde. A volerlo in squadra fu proprio Gino. E lui, al capitano, si consegnò anima e corpo, fedele e generoso, onorato. Aveva chiesto solo un giorno per potersi esprimere in libertà: la sesta tappa, la Perugia-Terni, 83 chilometri a cronometro. Tanto più che la partenza era stata fissata a Ponte San Giovanni, dove lui abitava. Ma al pronti-via la libertà si trasformò in prigionia: “Cerca di arrivare in tempo massimo – gli fu detto -, non ti affaticare troppo, domani abbiamo tre scalate per arrivare a Roma e ci servi”. Giravolta. Al traguardo Fausto Coppi festeggiò la vittoria, lo svizzero Fritz Schaer la maglia rosa.
Remo Sabatini era “Un campione d’altri tempi”, come nel titolo del libro che il figlio Sergio ha dedicato al padre, con affetto e documenti. I tempi di Bartali e Coppi, i tempi degli sterrati quando erano la norma e non l’eccezione, i tempi delle maglie di lana con i colletti svolazzanti e delle bici con i telai di ferro, i tempi in cui si correva per costruirsi un futuro, o almeno una casa, o soltanto una bottega da ciclista. Del 1926, terzo di cinque figli, brillante a scuola (vinse un premio letterario per la Festa del Risparmio, che gli valse 10 lire in un libretto vincolato per tre anni), poi le serali e un apprendistato da elettricista, un mestiere che avrebbe fatto prima e dopo la carriera da corridore.
La prima bicicletta a metà con suo fratello Giovanni. Chi cominciava in bici, la nascondeva a metà percorso e proseguiva a piedi; chi cominciava a piedi, prendeva la bici a metà percorso e proseguiva pedalando. Oppure in due, a turno, uno in sella e l’altro sulla canna. Finché riuscirono ad acquistare un’altra bici, usata. Le prime corse dietro un camion, e quando gli altri rimanevano dietro e lui, unico, gli stava davanti, gli si aprirono le corse vere. Sembra una leggenda: la maglia (grazie a una sarta che gliela confezionò usando avanzi di lana), gli allenamenti (intorno a casa per non essere sorpreso dal buio), l’esordio (tre corse, tre vittorie, allo sprint o per distacco), la prima squadra (il Veloce Club Perugino, che gli fece pagare la maglia: Cocco, ce dispiace ma nun te la potemo da’ gratise”), la seconda squadra (il Velo Club Foligno: e lì maglia “gratise”), fino alla decisione di lasciare il lavoro e concentrarsi sul ciclismo (e il padrone che gli promise “un domani io so’ sempre qua”, e così sarebbe stato).
Dal 1947 al 1953, sette anni vissuti velocemente. Dilettante, indipendente, professionista. Un giorno di gloria, il 18 giugno 1950, al Campionato italiano indipendenti del 1950, in Sicilia, a Milazzo. Al traguardo volante di Messina trascinò via un gruppetto. Sul San Rizzo, nei Peloritani, la selezione. Andò in fuga. Da solo. E da solo giunse al traguardo con 4’12” di vantaggio. Un’eternità. Oltre la gloria, anche la maglia bianca a fascia orizzontale tricolore, ancora incorniciata nel salotto della casa di famiglia a San Fortunato della Collina, a otto chilometri da Perugia, sulla strada per Marsciano.
Sabatini, quel titolo di campione italiano, altre vittorie, tanti piazzamenti. I raduni collegiali con gli azzurri di Giovanni Proietti nel 1949, l’ingaggio nella Legnano nel 1950, nello stesso anno il Giro dell’Africa del Nord con la squadra francese Vedette nel 1950 e il Tour de France con la nazionale dei cadetti, fu lì che Gino cominciò a considerarlo, apprezzarlo, stimarlo. La prima tappa di quel Tour, la Parigi-Metz, 307 chilometri, finale nervoso, gruppo frazionato, Remo rimase davanti, primo Ferdy Kubler che avrebbe poi vinto il Tour, lui nono e primo degli italiani. “La sera in albergo Ginettaccio gli disse: ‘Te tu va’ forte, se continui ‘ossì vinci il Tour’. In realtà chiese una dispensa per averlo, di tanto in tanto, in appoggio a sé stesso”.
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