DAMIANI: «IN ITALIA MANCANO I PROGETTI»

INTERVISTA | 16/03/2019 | 07:43
di Carlo Malvestio

Per quanto riguarda la scuola dei direttori sportivi, l’Italia può guardare tutti dall’alto al basso. All’estero fanno carte false per potersi assicurare le conoscenze ciclistiche dei DS del Bel Paese e, tra questi, non fa eccezione Roberto Damiani. Dopo più di 35 anni in ammiraglia (spalmati tra Mapei, Fassa Bortolo, Liquigas, Lampre, solo per citare alcune sue squadre), si può dire che ne abbia viste di tutti i colori. Nel 2018 ha sposato il progetto della Cofidis e in questi giorni è impegnato sulle strade della Tirreno-Adriatico.


Da diversi anni la Cofidis non prendeva parte alla Tirreno-Adriatico. Come mai questa scelta di tornare alla Corsa dei Due Mari?
«La Tirreno è il passaggio ideale per preparare una corsa come la Milano-Sanremo. Penso non ci sia una gara migliore da questo punto di vista. Abbiamo deciso di dividere la squadra in due gruppi, uno qua in Italia e l’altro alla Parigi-Nizza. In Francia abbiamo portato Christophe Laporte, mentre qui l’idea iniziale era di puntare alla vittoria di tappa con Nacer Bouhanni. Purtroppo, però, Bouhanni ha già abbandonato la corsa».


Fuori tempo massimo nella cronosquadre d’apertura. Cosa è successo esattamente?
«Ha sorpreso un po’ tutti questo suo ritiro. Eravamo venuti addirittura due giorni prima per provare la cronometro e avevamo anche lavorato bene, ma domenica ha avuto un netto ed imprevisto calo di prestazioni. Ci ha comunicato che le gambe non andavano e che avrebbe preferito andare avanti da solo. Ha provato a dare il massimo ma non ce l’ha fatta. D’altronde in una prova affrontata a 57 km/h di media, andare fuori tempo massimo è piuttosto facile. Dal canto nostro, abbiamo deciso di non aspettarlo, visto che non era un corridore in lotta per la classifica generale. Per noi era un primo test importante in questo tipo di prova, visto che poi ci sarà una prova a squadre anche al Tour de France. La nostra corsa va comunque avanti e proveremo a metterci in mostra con le fughe da lontano, come ha fatto molto bene Natnael Berhane nei primi giorni di corsa, regalandoci la soddisfazione di indossare la maglia verde di re degli scalatori. Vogliamo ripagare la fiducia che ci ha dato RCS».

Dall’esterno emerge un rapporto di amore-odio tra Bouhanni e la squadra. Quanto è difficile da gestire un corridore come il francese?
«Bouhanni è un corridore come gli altri. Da quando lo scorso anno Cédric Vasseur è diventato il general manager della squadra, alcune regole interne sono cambiate. Su certi aspetti Nacer era magari abituato diversamente. Possono capitare confronti anche molto accesi coi corridori, ma l’importante è sempre avere rispetto per il ruolo altrui. Ci sono i corridori, i direttori sportivi e il manager, come in una normale azienda».

Le migliori due squadre Professional di quest’anno, nel 2020 potranno prendere parte alle migliori corse del calendario. Volete vincere questa classifica?
«Si, già l’anno scorso ci siamo andati vicino. Avevamo chiuso secondi in quella a squadre, alle spalle della Wanty-Groupe Gobert, e avevamo vinto quella individuale con Hugo Hofstetter. Vogliamo far bene, anche se comunque faremo richiesta per entrare nel WorldTour».

Confermato, quindi, il progetto di salire nella massima categoria il prossimo anno?
«Si, il nostro management ha deciso questo. Se l’UCI accetterà la nostra candidatura, ne saremo ben contenti. Ciò non toglie che, anche per sicurezza, vorremo essere la migliore squadra Professional».

Vi siete già assicurati la wildcard per il Tour de France. Avete già un’idea di quali corridori porterete?
«Abbiamo un’idea generale, ma da qui a luglio possono succedere molte cose. Bisognerà valutare la condizione di forma dei vari atleti e il loro calendario di corse. Per noi è l’appuntamento più importante dell’anno. Sicuramente andremo con uno o due velocisti, mentre per le tappe più impegnative potrebbero esserci Jesús Herrada e Darwin Atapuma. Dare i nomi adesso, però, sarebbe azzardato. Senza dimenticare che poi per noi ci sarà anche la Vuelta a España».

In squadra c’è anche un italiano, Filippo Fortin. Cosa vi aspettate da lui?
«Conosco molto bene Filippo. È un ottimo velocista e lo abbiamo ingaggiato per poter essere un valido “poisson-pilote”, il pesce pilota, per gli sprinter di turno. Per saperlo fare, bisogna essere veloci, e Fortin lo è. Purtroppo ha avuto un inizio di stagione abbastanza complicato, perché ci teneva talmente tanto a partire forte che si è ritrovato in una condizione di sovrallenamento. Adesso sta pian piano riprendendo a correre e sono sicuro che farà una buona stagione, perché è un grande professionista».

Qual è il bilancio della sua avventura francese dopo più di un anno di permanenza?
«Sono super felice di aver fatto questa scelta. Sono in grande sintonia con Cédric Vasseur e con gli altri direttori sportivi. È una grande squadra, con un progetto molto serio. Ho ritrovato la voglia di fare il mio mestiere, sono contento. Ho un contratto di ancora tre anni con loro, Vasseur mi ha dato grande fiducia e voglio ripagarlo dando il meglio di me in questo lavoro».

Un anno fa diceva che il ciclismo italiano è in uno stato di sopravvivenza. Ha cambiato opinione?
«No, siamo sempre là. Il fatto di essere in Francia non distoglie la mia attenzione dal ciclismo italiano e posso confermare che stiamo facendo molta fatica. Inoltre, sono preoccupato perché, quando entreranno in vigore i nuovi regolamenti, si alzerà l’asticella e per le squadre italiane sarà ancora più dura».

Secondo lei non ci sono i margini per creare una nuova squadra italiana?
«Per formare una squadra ci vogliono tre cose: soldi, staff e corridori. Ma se il management non è in grado di trovare le risorse economiche, non c’è neanche da discuterne. Bisogna chiedersi come mai il ciclismo italiano non sia più appetibile per gli sponsor. Le corse son sempre più seguite, i tifosi invadono le strade e all’estero nascono progetti sempre più interessanti. Bisogna capire cosa sbagliamo, io compreso, perché anche se lavoro all’estero sono orgogliosamente italiano».

E lei che spiegazioni si è dato su questa crisi del ciclismo nel nostro paese?
«Questo stato di sopravvivenza in cui siamo ci fa dire continuamente “anche quest’anno siamo vivi”, ma non ci sono progetti, né a lungo né a medio termine. All’estero invece ci sono. I corridori italiani ci sarebbero, lo staff pure, ma nessuno ha voglia di impegnarsi e mettersi in gioco. Io sono tornato in Italia qualche anno fa, dopo cinque anni di lavoro in Belgio, ed è stato un errore. Non ho più intenzione di tornare in Italia, a meno che non ci sia un progetto serissimo».

Infine, una battuta sul Team Sky, che futuro prevede per loro?
«Mi auguro riescano a dare continuità al loro progetto. Anche se in molti dicono che è una schiacciasassi e che rovina le corse, penso sia una squadra che fa bene al ciclismo».


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COMMENTI
tempesta
16 marzo 2019 12:41 tempesta
Il problema, e solo uno non abbiamo campioni. Solo gente che fa il Numero.

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