I SOGNI DI FERNANDO GAVIRIA

PROFESSIONISTI | 24/02/2018 | 07:32
Fernando Gaviria, il velocista più vincente dell’anno scorso, titolo diviso con l’ormai ex compagno di squadra Marcel Kittel e con il bresciano Jakub Mareczko, ha iniziato il 2018 come ormai da tre stagioni a questa parte ci ha abituato: a braccia alzate.

Al Tour of San Juan, in Argentina, si è aggiudicato la prima tappa, confermandosi tra gli sprinter più forti del pianeta e con maggiori ambizioni per il prosieguo dell’anno: purtroppo nella quarta frazione il colombiano è stato vittima di uan caduta, ha dovuto ritirarsi ma il prosieguo della sua stagione non è a rischio e lo abbiamo visto in Colombia, dove ha vinto tre tappe alla Oro y Paz. E sarà una stagione importante perché, dopo i 14 successi dello scorso anno, Gaviria alza ulteriomente l’asticella.

Dopo aver debuttato al Giro d’Italia, conquistando quattro vittorie di tappa (a Cagliari ha anche avuto l’onore di vestire la maglia rosa) e aggiudicandosi la maglia ciclamino, in questa stagione si confronterà con il Tour de France, la corsa a tappe più importante del mon­do.

Prima di andare all’assalto del sueño amarillo sospinto dal tifo colombiano, el misil Gaviria ha però nel mirino la classica che più gli si addice: la Mi­lano-Sanremo. Alla prima partecipazione finì a terra a 300 metri dal traguardo, l’anno scorso si è dovuto ac­contentare della quinta piazza, non male per un ragazzo che vanta già 32 vittorie nella massima categoria, ma  che ha pur sempre solo 23 anni.

Sei atipico per natura. Velocista in un Pae­se di scalatori. Sudamericano con l’amore per le classiche del nord.
«Sono nato il 19 agosto 1994 a La Ceja, cittadina di 50.000 anime nel dipartimento di Antioquia, 45 chilometri da Medellin. Sono cresciuto in una famiglia in cui si è sempre masticato ciclismo: papà Hernando, ex professore di educazione fisica, è stato ci­clista ed è stato il mio primo allenatore. Ho cominciato col pattinaggio a rotelle, ma presto ho preferito la bici per emulare mia sorella Juliana, maggiore di due anni, olimpionica nella velocità su pista. Fin da piccolo ho sempre voluto vincere e in Colombia è difficile vincere in salita perché di scalatori forti ce ne sono tantissimi, così ho trovato la mia carta vincente nello spunto veloce. La pista mi ha in­segnato tantissimo, su strada riuscivo ad aggiudicarmi le poche corse piatte che c’erano, la selezione nazionale mi ha dato fiducia finché al Tour de San Luis 2015, all’arrivo della prima tappa sono riuscito a battere Mark Caven­dish. Così mi sono fatto conoscere an­che in Europa. Quello è stato il giorno che ha cambiato la traiettoria della mia vita: prima mi conoscevano in pochi».

Quanto sei cambiato da allora?
«In questi anni sono cresciuto fisicamente, ma soprattutto sono migliorato nell’attitudine mentale. Nel modo di pensare e di credere che posso raggiungere l’obiettivo che mi prefiggo. In passato, se avvertivo pressione per il risultato ero nervoso, ora riesco ad essere più concentrato sul lavoro, anche se a volte sbaglio come un bambino. Mi impegno per commettere meno errori possibili, stando attento in particolare all’alimentazione e all’allenamento. Con la popolarità crescente ho un rapporto altalenante, a volte è difficile gestire la fama. Dopo una corsa andata male capita di essere arrabbiato e di non aver voglia di posare per le foto con i tifosi, o se un giorno ti sei alzato con il piede sbagliato non hai voglia di rilasciare interviste, ma bisogna trovare il giusto equilibrio per rendere felici i tifosi e permettere ai giornalisti di svolgere il loro lavoro al meglio. Se hai un problema a casa devi impegnarti per se­parare il privato dal pubblico. Fa parte del lavoro».

Quest’anno senza Kittel e Boonen sei stato designato come lo sprinter di punta della Quick Step Floors.
«Sì, la squadra crede molto in me, ne sono orgoglioso e la vivo come una ul­teriore sfida. Tutti ambiscono ad essere grandi campioni come Boonen e Gil­bert, non so se un domani potrò essere considerato il loro successore in squadra, devo lavorare tanto per cercare di avvicinarmi ai loro palmares. Amo le classiche del nord, in queste prove se­condo me vale più il cuore delle gambe, ma finora non le ho mai disputate. Devo fare esperienza, conquistarmi un posto nel team come gregario e mettermi al servizio dei corridori più esperti. Intanto penso ai prossimi obiettivi. Il primo grande traguardo che vorrei raggiungere è la Milano-Sanremo. Con compagni come Gilbert e Alaphilippe possiamo attaccare sul Poggio o la Cipressa. Nel­la Classicissima sono già arrivato vicino alla vittoria quindi penso prima o poi di riuscire ad aggiudicarmela. Due anni fa sono caduto sulla linea d’arrivo, l’anno scorso non ho avuto le gambe e la fortuna necessarie per andare oltre il quinto posto. Un giorno arriverò primo in via Roma».

Come sarà la convivenza con Elia Vi­viani, con cui in passato ti sei scontrato tante volte sia in pista che su strada?
«Con Elia c’è stata una forte rivalità, ma ora è diverso. Siamo compagni e dobbiamo essere uniti per il bene della squadra. Ci siamo spartiti gli obiettivi: lui sarà al Giro d’Italia, io debutterò al Tour de France e quando saremo schierati nelle stesse corse ci comporteremo da professionisti quali siamo. Se lui sarà più in condizione di me, non avrò problemi a mettermi al suo servizio così come quando io andrò più forte so che mi aiuterà. Prima che partisse per il Tour Down Under abbiamo parlato un po’, capisco l’italiano quindi è facile intendersi, mentre per esempio con Mar­cel Kittel ho avuto un rapporto più complicato anche per il fattore linguistico. In più, in un anno Marcel ed io ci siamo visti due volte sole, ai ritiri di gennaio e a quello di ottobre, e abbiamo parlato proprio poco. Non ho avu­to modo di conoscerlo bene, ma ora che me lo troverò di fronte come rivale lo terrò d’occhio per imparare a batterlo. Tornando ad Elia, è un eccellente sprinter, è giusto che sia a me che a lui il team conceda le giuste opportunità per giocarsi la vittoria. Anche lui ama la Sanremo? Beh, anche Gilbert, Ala­philippe e molti altri ottimi corridori che fanno parte della Quick Step Floors... Uniti saremo più forti».

Cosa ti resta del Giro100?
«La corsa rosa 2017 è stata il mio pri­mo grande Giro in carriera, esserne protagonista mi ha dato ulteriore sicurezza nei miei mezzi. Sono contento di quanto raccolto, ma bisogna già guardare al futuro. Nel mirino quest’anno c’è il Tour de France, un nuovo passo nel mio percorso di crescita. Af­fron­terò questa ulteriore sfida di sicuro con Iljo Keisse e Maximiliano Richeze al mio fianco, gli uomini prescelti per affiancarmi nel corso di tutto l’anno. Dopo la maglia ciclamino, sarebbe un sogno vestire quella verde, ma non sempre i sogni si realizzano. Per concretizzarli, devi lavorare tanto ed essere anche fortunato. La Grande Boucle è la corsa più importante al mondo, in Colombia i tifosi ne vanno matti. Nairo (Quintana) e Rigo (Rigo­ber­to Uran) hanno sfiorato il successo finale, nella storia ancora nessun co­lom­biano è riuscito a portare a casa la maglia gialla. Io proverò a fare del mio meglio per po­ter avere l’onore di in­dossare il simbolo del primato. La pri­ma tappa è di pianura, vicino alla costa, ci sarà vento, potrà succedere di tutto, vedremo co­me staranno i rivali. Io devo arrivarci al top, anche se quando mi sento imbattibile generalmente non vinco. Come quando Ewan mi ha beffato al Giro: era il giorno in cui mi sentivo meglio. A luglio comunque mancano ancora tanti mesi e tante gare...».

I tuoi primi ricordi del Tour?
«Lo guardavo alla tv da bambino, vedevo Cavendish in maglia HTC con il suo treno e altri grandi nomi, con cui ora divido la strada, battagliare e sognavo un giorno di arrivare lì. Ora sapere che ci sono giovani corridori che guardano me come un modello, mi dà orgoglio, è una grande responsabilità, capisco il lo­ro sentimento. A volte io e i miei colleghi non percepiamo che c’è gente che ci guarda e vuole imitare i nostri passi. Mi motiva a far bene, per costruire una nuova generazione di corridori e persone migliori. Colombiani che potrebbero imitarmi? Di veloci in circolazione ci sono Alvaro Hodeg, arrivato quest’anno alla Quick Step Floors e Nelson Soto della Caja Ru­ral. Sono ragazzi da ammirare perché arrivano dalla zona costiera dove lo sport delle due ruote non è così praticato come ad An­tio­quia».

Lo sprint dei tuoi sogni?
«Non posso sceglierne uno solo e neanche limitarmi a sognare. La volata è più intuizione che matematica, le de­cisioni sono da prendere al momento, i programmi della vigilia o anche solo di dieci minuti prima lasciano il tempo che trovano. Ogni volata è diversa, an­che classificare i rivali è difficile: nei tre chilometri finali di una corsa adatta ai velocisti è come essere su un ring, è im­possibile non toccarsi con il manubrio, tra curve a destra e sinistra, le cadute fanno parte del gioco. Devo continuare a lavorare e a fare le cose fatte bene, altrimenti gli al­tri mi battono. Voglio rendere orgogliosi i miei connazionali, la Co­lombia è un paese stupendo che tanti purtroppo ancora associano solo alla guerra o al narcotraffico, vorrei farlo conoscere per le cose belle che può offrire. Per la mia carriera sogno di con­quistare tutte, o la maggior parte, del­le corse del calendario adatte ai ve­locisti».

Giulia De Maio, da tuttoBICI di febbraio
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