UN GIRO AL TOUR. I RIMPIANTI DI SILVIO

TV | 03/07/2017 | 07:02
Puoi aver vinto cinque volte il campionato del mondo, una medaglia d’oro all’Olimpiade (e anche una di bronzo, quattro anni più tardi), tappe al Giro e alla Vuelta, ventotto (ventotto sì) sei giorni, ed essere stato in maglia rosa (quattro volte, sempre nel magico 1996), eppure ogni volta che si parla di Tour de France ti scappa una specie di sospiro.

Silvio Martinello ne ha fatti quattro da corridore
(«finiti solo due però») e questo è il quarto da commentatore Rai. Per lui il Tour de France è ancora una sottile linea di rimpianto. «Mi manca non aver vinto una tappa qui. Ci ho provato, ci sono andato anche vicino. Ma non ce l’ho fatta».
  
Cominciamo dal principio. Era il 1994, quarto anno dell’era Indurain, e la Grande Boucle partiva da Lille, terra di miniere e di pavè. «Ero alla Mercatone Uno. Alla Vuelta c’era stato quello spaventoso incidente, Cipollini era ancora convalescente e Baffi dopo la squalifica aveva corso il Giro ma non il Tour, e insomma io ero libero di fare la mia corsa. Ero al debutto ma mi ero messo in testa di provare a lottare per la maglia verde, fin dalle prime tappe andavo su tutti i traguardi volanti alla ricerca di punti. Ci fu un prologo, poi il primo sprint, ad Armentières, passò alla storia perché Jalabert investì un poliziotto che voleva fargli una foto: io fortunatamente sprintavo dall’altra parte, feci quarto dietro ad Abdujaparov. Dopo quell’episodio i francesi si decisero a tenere anche i poliziotti dietro le transenne. Io comunque feci diversi piazzamenti, mi ricordo che tutti mi ammonivano, spendi troppo, stai attento, invece arrivai bene alla fine. La maglia verde la vinse Abdujaparov ma io fui secondo. E per le quattro settimane successive rimasi in giro per circuiti e kermesse».
  
L’anno dopo era il 1995, ultimo atto dell’epopea Indurain. Si partiva dalla Bretagna. «C’era anche Cipollini, che vinse due belle tappe. Però ci ammalammo tutti e due, per colpa della solita aria condizionata delle camere di albergo: lui la superò perché aveva un fisico decisamente più forte, io invece mi ritirai sulle Alpi, alla nona tappa». Quello è il Tour maledetto che qualche giorno più tardi ci portò via Fabio Casartelli sul Portet-d’Aspet.
  
Dopo lo splendido 1996, con un Giro indimenticabile e soprattutto l’oro di Atlanta, Martinello torna al Tour con la maglia della Polti nel 1998, l’anno di Marco Pantani. «Per me quel Tour durò pochissimo. Nella quinta tappa, vinta da Cipollini, ci toccammo con Kirsipuu in volata e mi fratturai la cresta iliaca».
  
Martinello ci riprova l’anno dopo, il primo dell’era-Armstrong. «Cercavo il successo di tappa a tutti i costi, fino all’ultimo traguardo, sui Campi Elisi: ma arrivai terzo dietro a McEwen e Zabel, persi la mia ultima occasione. Fu l’ultimo Tour per me, nel 2000 corsi soltanto il Giro. Devo dire che una vittoria al Tour è qualcosa che mi manca. E’ vero che per un italiano il Giro ha la sua importanza, ma al Tour io ho sempre avuto motivazioni che magari al Giro non avevo. E’ una corsa che mi è sempre piaciuta molto, mi dava stimoli incredibili. E’ che appena arrivi qua percepisci l’importanza dell’evento, sei al centro del mondo. Negli anni il Giro d’Italia ha recuperato sul Tour ma credo di non offendere nessuno se dico che è ancora indietro come portata. Poi però, se lo guardiamo dal punto di vista tecnico, la differenza è favore del Giro». Il Tour di quest’anno sembra un esempio classico di come si può disegnare una grande corsa in modo anonimo. «Sulla carta è banalissimo. Mi auguro che i corridori riescano a interpretare al meglio un percorso poco accattivante, anche perché vedere Aru in questa forma al Delfinato e al campionato italiano ha aumentato le nostre aspettative. Si dice sempre che sono i corridori a fare la corsa, speriamo che stavolta sia davvero così».
 
Quarto Tour da voce tecnica in Rai, al fianco di Francesco Pancani, il Martinello commentatore ha eguagliato numericamente il Martinello sprinter. «In questa veste sono stato più fortunato. Primo Tour nel 2014 e subito mi sono trovato a commentare la vittoria di Nibali. Mi ricordo che mi telefonò Davide Cassani: ma come, anni di niente e tu vinci subito un Tour?». Benvenuto nel mondo dei giornalisti, noi che viviamo come vittorie anche nostre quelle che abbiamo la fortuna di raccontare. «Sono emozioni vere, anche per uno come me che in fondo certe emozioni le ha vissute direttamente. Ma è bellissimo raccontare un Tour vinto da un italiano, ed è anche una responsabilità». Anche una fatica? «Certo. Diversa da quella che fai da corridore, neanche paragonabile, ma comunque fatica. Io dopo tre settimane di Giro o di Tour sento il bisogno di recuperare fisicamente e mentalmente. E comunque una corsa va preparata, tante ore di telecronaca non le puoi improvvisare. E’ un lavoro che impone studio, preparazione, bisogna avere argomenti e conoscere bene la materia». Lo studio di questo Tour ha riservato qualche delusione. «Diciamo che chi ha disegnato il Tour non ha avuto la stessa fantasia che hanno ogni anno al Giro. Nove-dieci tappe adatte ai velocisti sono tante, la tappa più dura è quella del Mont du Chat, in salita e anche in discesa, ma è alla fine della prima settimana. Nell’ultimo weekend ci sciroppiamo tre tappe per velocisti e una crono. Sulla carta vedo grande equilibrio. E’ chiaro che Froome deve avere la precedenza nei pronostici per quello che ha dimostrato in passato, la sua condizione è un’incognita ma ha una squadra stellare. Speriamo che Aru ci faccia divertire». Perché raccontare una vittoria non ha prezzo.

Alessandra Giardini
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