FENOMÉN SAGAN

PROFESSIONISTI | 29/11/2016 | 07:19
16 maggio 2015, Mount San Antonio, California. È qui, sul far della sera americana mentre in Italia è ormai notte fonda, che nasce il nuovo Peter Sagan.
È qui, salendo verso la stazione sciistica di Mount Baldy, che il campione diventa fenomeno.
Campione, infatti, Peter Sagan lo è già: ha già tre maglie verdi in bacheca, una lunga serie di vittorie ma un altrettanto lungo elenco di sconfitte. E l’aria in seno al suo nuovo team, la Tinkoff Saxo, comincia a farsi pesante.
Oleg Tinkov, il magnate russo che da poco ha rilevato la squadra che era di Bjarne Riis, co­mincia ad essere ner­voso: il suo gioiel­lino non ha vinto alcuna classica e lui dice apertamente che gli sembra di averlo pagato troppo.

Peter in quella primavera, la prima af­frontata lontano dai co­lori di Liquigas pri­ma e Cannondale poi, ha vinto una tappa della Tir­reno-Adriatico, poi è stato quarto alla Sanremo e al Giro delle Fiandre, decimo alla Gand-We­vel­gem, ventitreeseimo alla Rou­baix. Risultati tutt’altro che da buttare, ma a patron Tinkov non basta.

Così quando sbarca in California, Peter è nervoso e l’esordio non scioglie la tensione: tre tappe e altrettanti se­condi posti, battuto due volte allo sprint da Cavendish e una volta dal fuggitivo di giornata Toms Skuijns. Poi la vittoria ad Avila Beach, il terzo posto di Santa Clarita (ancora primo Cavendish) e la vittoria nella crono accorciata per via del maltempo.

Il 16 maggio, Peter ha la maglia gialla di leader della classifica sulle spalle e la tappa più dura davanti a sé: si corre la Ontario-Mount Baldy di 128,7 km, si arriva nella località sciistica che dista 72 km da Los Angeles, in cima a quella che gli esperti giudicano la seconda salita più dura del­la Cali­for­nia e inseriscono tra le venti salite più impegnative degli Usa.

Sono 21 chilometri per passare dai 500 metri di Claremont ai 1967 metri del traguardo: dopo un tratto iniziale relativamente semplice, si superano due tunnel e da qui la strada sale sempre all’8% con pendenze che arrivano a superare il 10 e la strada che spiana appena prima dell'ultimo chilometro che è il più duro di tutti.

Lassù, dove regna ancora la neve, Pe­ter arriva sesto a 47 secondi da Julian Alaphilippe, a 24 da Sergio Henao e Ian Boswell, a 11 da Dombrowski e a due da Zoidl.
Perde la maglia per due secondi, ma per lui è il giorno della svolta.

«Quel giorno Peter ha corso come un uomo di classifica vero, ha affrontato la gara come uno scalatore puro - ricorda Giovanni Lombardi che del campione del mondo è lo storico procuratore -, ha voluto provare a vincere la corsa. E ci è riuscito, visto che il giorno seguente ha sfruttato gli abbuoni per riscavalcare Alaphilippe e riappropriarsi della maglia gialla. Sul traguardo di Mount Baldy, Peter è arrivato dando anche il colpo di reni, segno di una lucidità eccezionale al termine di una scalata durissima e di una volontà ferma. Io credo che quello sia stato lo sforzo più grande che ha compiuto nella sua carriera e sicuramente quello è stato il giorno della svolta, da quel momento si è sbloccato qualcosa e Peter non si è più fermato».

E Tinkoff si è rasserenato.
«La situazione che si era creata cominciava ad essere pesante perché non ritenevamo giuste quelle critiche, ma dopo quel successo in California le cose si sono sistemate e Peter ha regalato a Oleg ogni tipo di soddisfazione, ogni tipo di vittoria. Possiamo dire che Tinkov si è divertito tanto grazie a Sagan?».

La California è diventata un po’ la sua seconda patria.
«Quando corre su quelle strade, lo chiamano semplicemente “Mister California”. E quando c’è lui è sempre festa. Dopo le due settimane di vacanza che si è concesso in Polinesia (dove è volato direttamente dal Giappone, dopo aver chiuso la stagione disputando il Crietrium di Saitama, organizzato dalla Aso, ndr), Sagan è volato proprio in California dove è stato protagonista di un evento benefico, il Peter Sagan VIP Charity Ride. 198 ciclisti, tanti quanti quelli che compongono il gruppo in una grande giro, hanno potuto pedalare e vivere al suo fianco per tre giorni, dal 18 al 20 novembre, in un hotel di lusso come il Westlake Village Inn. I proventi di questa manifestazione, che vede Peter al fianco di Specialized, sono destinati ad un ente benefico, The Boys and Girls Club of America. Poi è tornato a casa e all’inizio di dicembre partirà per la Spagna, dove si svolgerà il primo ritiro della Bora Hasgrohe».

Ma cos’ha di speciale Sagan? Cosa lo rende così unico?
«Che tutto quello che fa gli viene d’istin­to e la gente lo percepisce, per questo gli vogliono bene. Non è mai banale: quando c’è lui in corsa qualcosa succede sempre, tutti lo sanno. Su­bito dopo il mondiale, parlando di lui ho usato un’iperbole: Peter sta al ciclismo come Maradona stava al calcio. Tu vai a vederlo e sai che non resteri deluso, anzi. Lui può vincere in tutti i modi o quasi, può inventarsi la vittoria in contropiede o in volata, l’attacco lontano dall’arrivo, la giornata in fuga».

A Doha è stato uno degli ultimi corridori ad arrivare e ha mandato all’aria le teorie sulle necessità di adattamento...
«Nessuna intenzione di criticare gli studi scientifici, ma Peter ha deciso così. Ha preferito prepararsi a casa sua, a Montecarlo, e la sua scelta è stata premiata dal successo. Ma qui stiamo parlando di un fenomeno che sfugge alle regole, di un corridore che che rende facili anche le imprese più difficili».

Una sua dote è proprio la tranquillità nell’avvicinamento alla corsa.
«Peter è forte di testa e riesce a non farsi mai prendere dall’ansia. È super tranquillo, riesce a farsi scivolare tutto addosso, si cala nel clima della gara solo quando scatta la corsa e a volte anche dopo. Ma non è superficialità, attenzione, perché lui vuol vincere sempre, in qualsiasi gara. Ma sa anche perdere e questo non è da tutti. In più, è generoso, lo ha dimostrato anche al mondiale, quando le sue prime parole dopo la vittoria sono state di ringraziamento a Koren e a suo fratello Juraj, i compagni di nazionale».

Quando vi siete conosciuti?
«All’inizio di marzo del 2010, lui era fresco di passaggio al professionismo con la Liquigas. Aveva appena compiuto vent’anni, vinse due tappe alla Pa­rigi-Nizza e un mese dopo andò a segno al Romandia. Non ci voleva tanto per capire che aveva stoffa. Al termine di quella stagione agonistica cominciammo a lavorare insieme».

Quale fu la dote che la colpì prima di tutte?
«La straordinaria capacità di gestire i finali di corsa quasi fosse un veterano. E la volontà di giocarsela con chiunque, senza timori reverenziali verso nessuno. Vi posso assicurare che non è facile, per un ragazzo di appena vent’anni».

Difficile lavorare con lui?
«Semplice non è. Non lo era prima, non lo è ora, soprattutto dopo il primo successo mondiale, quello di Rich­mond. Non è semplice perché Peter è molto più di un semplice ciclista. Ma lavorare con lui è appagante, senza ombra di dubbio».

Siete sempre in contatto?
«Abbiamo un rapporto molto stretto, ma non invasivo. Possono passare set­ti­mane o anche un mese senza sentirci, ma lui sa che se ci sono problemi o questioni da affrontare, io sono pronto al suo fianco. Le decisioni? Discutiamo e poi le prendiamo insieme».

Avete discusso anche la sua scelta di disputare la prova di mountain bike alle Olimpiadi di Rio?
«Peter ci teneva tantissimo a quella cor­sa, non avete idee di quanto abbia lavorato dopo il Tour. Era entusiasta dell’idea di primeggiare nella specialità che aveva praticato da ragazzo. Era semplicemente felice e aveva addosso una carica di adrenalina che non gli avevo mai visto. So che a Rio ha vissuto i giorni più belli della carriera. Era partito alla grandissima, alla terza curva era già in testa, poi quella maledetta foratura gli ha negato la possibilità di lottare per le medaglie. Ha soferto, ci è rimasto malissimo. Perché ci credeva».

Il campione è cresciuto e diventato un fenomeno, l’uomo Sagan invece è...
«Rimasto il ragazzo semplice che ho conosciuto nel 2010. Credetemi, nonostante le tante vittorie e i grandi trionfi, non si è montato la testa. È molto attaccato alla famiglia e agli amici veri».

Come vive il fatto di essere un idolo, non solo in Slovacchia, soprattutto per i bambini?
«Con la massima disponibilità. Credo che non ci sia un bambino al mondo che non abbia avuto da Peter l’autografo, la borraccia o il cappellino che gli ha chiesto. Anche poco prima del via di una grande corsa, la sua disponibilità è massima. I bambini lo fanno letteralmente impazzire».

La più scontata delle domande: dove può arrivare Peter?
«Non lo so e non lo sa. Ve l’ho detto, in California un anno fa è nato un nuovo corridore che ha la forza di porsi sempre nuovi obiettivi, di inventarsi nuove sfide. Io credo che la Liegi possa essere una gara adatta a lui, ma da uno come lui, abituato a stupire, dobbiamo aspettarci di tutto».

Paolo Broggi, da tuttoBICI di novembre
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