SAGAN, L'UOMO DELLA RIVOLUZIONE

PROFESSIONISTI | 29/10/2016 | 07:11
La maglia di campione d’Eu­ro­pa dov’è? In gruppo non c’è e non ci sarà perché nascosta sotto quella iridata, sulle spalle del più fulgido fenomeno del ciclismo mondiale. Già, perché anche sulla côte de Cadoudal e sul traguardo di Plumelec Peter Sagan li ha messi tutti in fila, senza se e senza ma.

Straordinario, il talento slovacco. Che va a segno e dà spettacolo con incredibile regolarità. Su tutti i terreni, quando te lo aspetti e quando non è nel novero dei favoriti, quando lo supporta una grande squadra e quando invece è costretto a far da sé, come accaduto lo scorso anno a Richmond e anche nel finale dell’Europeo, come è accaduto anche a Doha pochi giorni orsono.

Diventa sempre più difficile trovare parole per descrivere le imprese di questo campione che sta cambiando il volto del ciclismo mondiale, le abitudini di un intero sport, il modo di pensare e di intendere una disciplina che da sempre affonda le sue radici nella storia e nella tradizione.

E allora vi proponiamo un viaggio a ritroso nel tempo, alla scoperta delle origini di Peter Sagan: in terra di Slovacchia, laddove il piccolo di casa Sagan ha mosso i suoi primi passi.
Un viaggio che comincia con l’immagine di un ragazzino, non più di dodici anni, che si sta esibendo in impennata, con una sola ruota incollata terra: “fa il Sagan”. Sulle spalle ha una maglia della Tinkoff decisamente troppo grande per lui, ma a Ziar nad Hronom questa non è una novita: sul traguardo del Peter Sagan Tour, infatti, sono in tanti i giovani imitatori del campione del mondo e d’Europa.

È un happening dedicato al fuoristrada, il Peter Sagan Tour, che va in scena in una semisconosciuta cittadina dei Carpazi, con Peter Zanicky, organizzatore e primo allenatore di Peter Sagan, che racconta: «Quando Peter partecipava a questa manifestazione, avevamo al massimo quindici ragazzi per categoria a contarli tutti, oggi ce ne sono più di cento».

Accanto al percorso, la sede di una scuola di ciclismo, letteralmente tappezzata di poster del campione.
«È stato in occasione di una piccola gara come questa che ho in­contrato per la prima volta Peter nella sua città natale, a Zilina - racconta -. Pochi mesi più tardi, con suo fratello maggiore Jurai è entrato a far parte del CyS Zilina. Si capiva già allora che era un talento. Ed era già speciale. Una volta, ricordo che eravamo a Dubnica nad Vahom per una prova di Coppa di Slovacchia. Mi apposto sul percorso, circa un chilometro dopo il via, per vedere il passaggio: mi aspetto di scorgerlo tra i primi ma non passa. Guardo e riguardo ma non passa. Corro alla partenza e lo vedo in lacrime, la bicicletta a terra e un ginocchio completamente spelato. L’ho consolato un po’, si è rinfrancato ed è ripartito. Così sono andato verso il traguardo sperando che potesse risalire fino alla ventesima, venticinquesima posizione. Invece sull’ultimo dosso lo vedo passare a ruota del leader per poi batterlo in volata. Quel giorno ho avuto l’impressione che volasse...» dice il tecnico prendensosi la testa fra le mani nel gesto tipico dell’incredulità.

Poco lontano, Lubomir Sagan osserva i ragazzini in corsa, proprio come ha fatto per anni con i suoi figli. E ripensa a come Peter, alla loro età, fosse già un corridore diverso da tutti gli altri: «Una volta, alla vigilia di una corsa, si accorse che la sua bici era rotta. Ha trascorso tutta la notte cercando di adattare la bicicletta di sua sorella, una normale bici acquistata al supermercato. Il giorno seguente ha corso con quella. E naturalmente ha vinto».

E coach Zanicky aggiunge: «Ricordo, dopo una corsa, di averlo ripreso perché aveva corso troppi rischi. E altrettanto bene ricordo la sua risposta: “Coach, il pericolo non è un problema. Posso cadere o posso vincere, ma di certo non arrivo secondo”».

Matej Visna era uno scalatore, ha corso con Peter dal 2001 al 2006 nel Cys Zilina e poi ancora nel 2009 con la maglia del Dukla Trencin e i suoi ricordi sono preziosi per inquadrare Sagan.
«Per questioni di età, ero grande amico di Jurai Sagan, ma Peter seguiva ovunque il fratello e così siamo diventati tre amici inseparabili. Ricordo benissimo i nostri ritiri, tutte le ore trascorse a giocare a hockey su ghiaccio con la playstation. Quando perdeva, Peter spaccava il joystick per terra o lo lanciava contro il muro. E per due gioni non parlava con nessuno. Siamo cresciuti pedalando sui prati del Lesopark, a 300 metri dalle nostre case: ogni volta che dovevamo uscire in allenamento, Peter faceva storie, cercava sempre qualche scusa per evitare l’impegno ma alla fine ci seguiva».

E gli allenamenti li ricorda bene coach Zanicky: «Ha sempre voluto conoscere e capire tutto. Se io proponevo un allenamento di sei giri del percorso, prima di partire voleva capire perché sei e non cinque o sette. Chiedeva, capiva, immagazzinava e poi in corsa faceva quel che voleva».

Un dato, questo, confermato da Matej Vysna: «Per lui la tattica di corsa era qualcosa di inutile, pensava solo a correre e soprattutto a vincere. E aveva altri interessi oltre al ciclismo, in particolare le ragazze. Ricordo un ritiro su tutti, nel 2006, c’erano le nostre madri ad accompagnarci. Mia mamma sa leggere le carte e Peter andava da lei ogni due ore a chiedere notizie sul suo futuro in amore. E ogni volta lo faceva per una ragazza diversa».

Un talento innato, quello di Sagan, che aveva comunque bisogno di essere te­nuto desto: «Spesso dava l’impressione di disinteressarsi del ciclismo - ricorda Zanicky - e molte volte a poche ore dalle corse era rilassato, anche troppo. Per questo, gli proponevo sfide inusuali, anche di pugilato, per tenere alta la sua attenzione».

Fino a quindici anni, Peter ha sempre corso in Slovacchia, poi, dopo aver conquistato il titolo di campione nazionale juniores di ciclocoross, ha cominciato ad andare anche all’estero.
«Quando a 18 anni è diventato campione del mondo juniores nel fuoristrada in Val di Sole - ricorda papà Lubomir - lo ribattezzarono Terminator e cominciarono ad interessarsi a lui anche oltre confine».

«Nel 2009 raggiunse Jurai e me nel Du­kla Trentin - ricorda Matej -: per tutti era il fratellino di Jurai, perché su strada doveva ancora dimostrare tutto. Ma gli sono bastate poche corse per diventare il capitano della squadra, riconosciuto da tutti in quel ruolo».

Maros Kovac era uno dei “vecchi” della squadra slovacca di GS3 e ricorda il giovane Peter: «Era curioso, voleva sapere tutto di tutto. E mi chiedeva di tutto, anche qualche consiglio per ab­bordare le ragazze. Ma abbiamo 13 anni di differneza e delle sue conquiste in realtà non abbiamo mai parlato. Per quanto riguarda il ciclismo, mi seguiva in allenamento, mi chiedeva come af­frontare certi dossi con la bici da ciclocross, come migliorare, voleva sapere sempre come e perché».

Nel 2010 l’approdo alla Liquigas Doi­mo e al professionismo, il salto di qualità, con l’ingresso prepotente nel ciclismo che conta. So­no cambiate molte cose da allora, ma se non può più esibirsi in derapate sfruttando il vecchio catino di sua madre, Peter non ha certo perso la voglia di divertirsi. E soprattutto non ha perso la voglia di vincere. Sempre e comunque.

Paolo Broggi, da tuttoBICI di ottobre

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