FAUSTO MASNADA E L'EMOZIONE DI RIPARTIRE

INTERVISTA | 30/03/2024 | 08:18
di Carlo Malvestio

Fausto Masnada è in credito con la dea bendata. Quando alla fine del 2021 lottava con Tadej Pogacar sul traguardo della sua Bergamo a Il Lom­bardia, sembrava potesse essere l’inizio di una nuova fase della sua carriera, sempre più ai vertici del ciclismo internazionale. Invece, purtroppo, è stato l’inizio di un biennio super travagliato, in cui sfortuna e problemi fisici lo hanno sempre costretto a cambiare i suoi programmi e ricostruire tutto daccapo. La mononucleosi prima, e un problema al soprassella trascinato troppo a lungo poi, gli hanno fatto perdere quasi due anni di carriera, ma l’atleta della Soudal - QuickStep ha cominciato a vedere la luce in fondo al tunnel alla fine dello scorso anno e ora ha voglia di riprendere da dove aveva lasciato.


Fausto, visti gli ultimi due anni non è una domanda banale: come stai?
«È vero, non è mai banale. Ma sto be­ne, ho fatto un buon inverno! Ho trascorso il ritiro di dicembre in Spagna con la squadra e anche quello di gennaio. Poi sono andato in Colombia per tre settimane in altura e tutto finora è andato secondo i piani. Al Tour of Oman nel complesso ho avuto buone sensazioni, è sempre una corsa che met­te sul tavolo salite brevi e altre più lunghe, che ti permettono di capire a che punto sei nella preparazione. L’idea è quella che la forma vada via via a migliorare, visto anche il grande blocco di lavoro fatto in altura».


Cosa ti ha lasciato la trasferta omanita?
«Le tappe accorciate hanno un po’ cam­biato la fisionomia della corsa e alla fine le giornate sono venute fuori ancora più esplosive di quanto già erano. E io non ho sicuramente le caratteristiche per far bene in quel tipo di arrivi. Ma come squadra è andata veramente bene, ci so­no questi nuovi neoprof, Lamperti e Magnier, che van­no forte, sono incredibili. Non sentono la pressione, lo stress, e riescono a vincere con una facilità im­pressionante. Vorrei che anche a me riuscisse così facile vincere… Però, dai, sia­mo fiduciosi e ora con­centriamoci sul calendario europeo».

Come mai hai scelto di andare in ritiro in Co­lombia?
«Ci ero già andato due an­ni fa. Anche quest’anno ho fat­to tre settimane e ho svolto un bel blocco di lavoro. Ritengo sia comunque importante iniziare la stagione avendo alle spalle una preparazione di questo tipo. L’anno scorso avevo provato a fare qualcosa di diverso, sono partito da Maiorca e poi ero andato in Oman, ma stavolta sono tornato in Colombia perché ho visto che mi trovo meglio. Le sensazioni, ma anche i nu­meri, sono migliori rispetto allo scorso anno, a conferma che questo è l’avvicinamento alla stagione più adatto a me».

Ricordiamo, è un ritiro che hai organizzato completamente da solo.
«Devi avere la possibilità di andare, nel senso che serve almeno un mese di tem­po. Se vai sul Teide sono 5 ore di volo con Ryanair, in Colombia sono 10 ore di volo e c’è il fuso orario. Però se uno ha un periodo di tre settimane e la possibilità di rientrare qualche giorno prima dell’inizio delle corse, per me è ottimo. Le temperature sono buone, riesci a stare più alto altimetricamente e, se scegli bene la zona, c’è poco traffico. In Spagna devi essere più organizzato, devi noleggiare la macchina, devi prendere il massaggiatore e varie altre cose, mentre in Colombia sotto questo punto di vista sono molto attrezzati, c’è il massaggiatore che ti può seguire tutti i giorni. Quest’anno ho optato per l’Al­to de Las Palmas, vicino a Medellin, e mi sono trovato meglio rispetto a due anni fa, quando ero in zona Dui­ta­ma. Ho diviso l’appartamento con Jan Hirt e Lorenzo Rota, siamo riusciti a combinare le date, ognuno aveva la sua routine, ma è stato bello condividere l’esperienza con un compagno di squadra e un amico, perché il tempo passa più veloce e la nostalgia di casa è minore. Hirt l’ho visto veramente bene in Colombia, è uno a cui piace partire for­te e in Oman lo ha dimostrato».

Arrivi da due annate travagliate per un motivo o per l’altro. Quanto è difficile in­seguire la migliore condizione?
«Non è stato facile, ovviamente. Dopo l’intervento chirurgico che ho sostenuto per il problema al soprassella sono stato fermo un mese e mezzo, ho ripreso step by step, sono stato in altura più di un mese per cercare comunque di allenarmi sotto l’aspetto della resistenza, che alla fine è la mia qualità più grande. Nel finale di stagione, tutto sommato, ero davanti, alla Bernocchi ho chiuso in Top 5 e al Lombardia non ero lontano dai migliori. Ho dimostrato di poter ancora pedalare ad un buon livello ed è quello che spero di poter fare anche quest’anno, ovviamente togliendomi qualche soddisfazione in più, perché alla fine i risultati sono quelli che contano. Sono in scadenza, devo trovare un nuovo contratto e mi piacerebbe rimanere qui, devo dimostrare qualcosa in corsa, per cui speriamo di portare a casa qualche risultato».

E mentalmente come hai vissuto l’ultimo anno?
«Non benissimo. Perché già l’an­no pri­ma avevo preso la mononucleosi, ho perso metà stagione e mi è toccato saltare il Giro. Sono rientrato a fine stagione, ma poi ho co­minciato ad avere questo problema al soprassella nel mese di giugno-luglio che alla fine mi sono trascinato per una stagione intera. E per un ciclista professionista un anno è come dieci anni per un lavoratore normale. La carriera scorre velocemente, sento la pressione di essere in scadenza, sento la pressione di dover dimostrare, ma questo, in realtà, è anche un aspetto che mi piace e e che serve se­condo me per mantenere una soglia di concentrazione e impegno sempre al massimo livello».

È cominciato il tuo quinto anno in ma­glia Soudal-QuickStep. Quanto è cambiata la squadra in questi anni?
«Sono cambiate tante cose. Però alla fine Lefevere ha fatto le giuste scelte e ha preso comunque giovani che hanno già dimostrato di essere all’altezza. Non so se sia fortuna o il saper scegliere bene, però c’è già un bel gruppo, no? È uscito parte dello zoccolo duro, come Senechal, Ballerini, Schmid, tutti corridori forti, e sono arrivati 11 ragazzi. Parliamo di un cambiamento grande, ma la cosa sorprendente è l’unione che si è venuta subito a creare. Il riuscire a creare questo tipo di atmosfera in squadra penso sia la forza del team. Certo, un ragazzo di 19 o 20 anni ne­ces­siterà di un po’ di tempo per entrare nelle dinamiche della squadra, capire come muoversi e via dicendo, ma già il fatto che siano ragazzi di talento è mol­to importante. Su tutto il resto ci si può lavorare».

Temi che tutti questi ragazzini rubino il posto a voi più esperti prima del previsto?
«Fisicamente sono già pronti, però l’esperienza, come in tutti i lavori, la fai sul campo. Hanno già i numeri per vincere, come hanno ampiamente dimostrato, ma per fare un ulteriore salto in avanti, per incrementare il loro valore, avranno bisogno di un po’ di tempo per adattarsi. Ormai non ci accorgiamo nemmeno più di tutti i giovanissimi che passano nel WorldTour. Magari te ne rendi conto quando cominciano a vincere. Ma da quando è arrivato Eve­ne­­poel è cambiato un po’ tutto, la ge­stione dei ragazzi e la mentalità con cui arrivano al professionismo. Se una vol­ta passavi e inizialmente facevi il gregario, ora sei il capitano, ma perché meriti di esserlo, perché sei già forte. Non c’è gelosia in questo, se dovessi averla perché devo sacrificarmi per un ragazzo più giovane, sarei un ignorante. Bi­sogna accettare la realtà e rendersi con­to che se una volta ci mettevi un tot di anni per arrivare ad un certo livello, ora quello sforzo lo si può sopportare già a 19 anni, probabilmente perché nelle categorie precedenti hanno fatto carichi di lavoro più importanti rispetto a quelli che facevo io. Ciò non toglie che per rimanere ad alti livelli devi an­dare forte, al di là dell’età che si ha. An­che perché gli anni di carriera, se­condo me, sono sempre quelli. Se passi a 19 anni, a 32 sei in fase calante, se passi a 25, duri magari fino ai 37».

Il livello in gruppo sta continuando ad alzarsi?
«Più che il livello generale, secondo me è soprattutto una questione di dover sempre essere preparati al 100%. Non puoi dire “vado al Tour of Oman per vedere come sto” oppure “vado per al­lenarmi”, perché finisce che ti stacchi da 40 corridori, anche se non è una corsa WorldTour. Alla Muscat Classic, per esempio, ho fatto ottimi valori sullo strappo precedente al traguardo, ma eravamo ancora in 40, a conferma che tutti vanno già forte. Poi ognuno sa quello che deve fare per arrivare al top, che tu sia velocista o scalatore».

Con questi numeri, 10 anni fa avresti fatto podio al Giro d’Italia?
«Non lo so, però avrei sicuramente fat­to più piazzamenti nei primi 10. Se prima c’erano 20 corridori che potevano fare Top 10 al Giro, ora ce ne sono 60. Ma è normale, ormai si cercano i migliori corridori in ogni angolo del mondo e quelli più “deboli” vengono accantonati. Questo rende il livello del gruppo altissimo e estremamente vario in termini di nazionalità».

Cosa chiedi al tuo 2024?
«Un anno senza intoppi, un anno in cui riuscire a togliermi qualche soddisfazione, perché alla fine lavorando duro e non avendo problemi fisici, secondo me, qualcosa si può ottenere. Sono mol­to realista e mai ho detto che punto a vincere un Grande Giro o che farò numeri impressionanti. Però, ecco, il fatto di poter dimostrare di poter essere un buon corridore, un buon professionista per rimanere nel World Tour, questo sì. Credo di avere nelle gambe qualche risultato, qualche piazzamento, e magari una vittoria di tappa in uno dei Grandi Giri, che mi rendano tranquillo e mi diano la possibilità di rimanere nel World Tour senza alcun problema».

Tornerai al Giro?
«Non so ancora quali Grandi Giri farò, ma spero sinceramente di poterne fare due. L’ultimo l’ho corso a mezzo servizio nel 2022, era la Vuelta, nel 2021 ho dovuto lasciare il Giro a metà per una tendinite al ginocchio, quindi dobbiamo tornare al 2020 per l’ultimo Grande Giro disputato senza intoppi. Ho vo­glia di tornare a disputarli da protagonista».

Quindi non è da escludere nemmeno il Tour al fianco di Evenepoel?
«Non si sa, davvero. Vediamo come van­no queste prime gare stagionali, ci sono due appuntamenti importanti co­me Tirreno-Adriatico e Volta a Ca­ta­lunya e poi faremo il primo punto della situazione. Le porte per il Tour sono aperte per tutti, ma bisognerà andare veramente forte per guadagnarsi un posto».

Alla Vuelta vinta da Remco tu c’eri…
«Sì, però è normale che poi i gruppi cambino. Sia io che Hirt ne facevamo parte, ma ora abbiamo un calendario differente e non correremo praticamente mai con Remco in questa prima par­te di stagione. Ma un talento come lui merita di avere i più forti al suo fianco, quindi vedremo se potremo fare parte della squadra o meno».

Può vincere la Grande Boucle?
«Secondo me è sempre più forte. Nelle classiche più dure e nelle gare di una settimana ritengo sia il migliore al mondo. Nelle tre settimane ci sono molte più variabili, tra stress, cadute, recupero e altre cose che possono in­fluenzare una prestazione. A livello di numeri e potenza, però, non ho dubbi che possa vincerlo».

Giulio Ciccone ha avuto il tuo stesso problema al soprassella…
«Sì, anche se il mio è stato un intervento un po’ più importante, più lungo e con più punti di sutura. Inizialmente avevo provato ad evitare l’operazione, in inverno avevo fatto tre mesi di antibiotici che però alla fine non sono serviti a nulla. Quindi mi son ritrovato a dover asportare un massa più grande rispetto a quella di Giulio, ma il problema che ci ha colpito alla fine è lo stesso».

Lo hai sentito?
«Sì, ci sentiamo spesso, siamo amici, e avendo avuto lo stesso problema se posso dargli qualche consiglio lo faccio volentieri. Gli ho detto di rivolgersi al professor Cassisi che ha operato me e tanti altri corridori. È fondamentale che l’intervento riesca bene, perché se ti rimane una cicatrice o un taglio di­verso rischi anche di finire la carriera. Posso solo dirgli di aver pazienza e aspettare che la ferita si cicatrizzi bene perché è una zona delicata e se inizi ad allenarti troppo presto c’è il rischio che poi faccia male o che si infetti, che si formi un cheloide, e a quel punto puoi perdere davvero tanto tempo, rispetto a quanto preventivato».

Abbiamo visto che hai aperto un tuo sito in cui ti racconti…
«Sì, era un po’ di anni che avevo in te­sta di fare questa cosa, di aprire il mio blog personale, di essere seguito me­glio sui social, perché ho sempre ritenuto sia una cosa molto importante. Al di là di raccontare la vittoria, perché quando vinci tutti ti seguono, avevo piacere a mostrare qualcosa di più sulla mia giornata, sulla routine di una ciclista professionista o semplicemente di raccontare qualche aneddoto. Così, con la consulenza di un’agenzia di marketing che mi sta seguendo, abbiamo deciso di aprire questo blog e creare contenuti più carini e studiati per i so­cial. I blog ovviamente li scrivo io, mentre l’agenzia mi aiuta con le grafiche e la programmazione. Ci tengo co­munque ad apparire me stesso e non in una versione “costruita”. È un piccolo hobby, che ovviamente viene dopo allenamenti e vita personale, ma che credo possa mostrare bene la passione che ho per questo lavoro».

da tuttoBICI di marzo

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