L'ORA DEL PASTO. IL CICLISMO DI VERONA? CE LO RACCONTA RENZO

LIBRI | 02/08/2021 | 08:03
di Marco Pastonesi

C’è la storia di Giuseppe Pancera, il Dorando Pietri del ciclismo, perché nella Parigi-Brest-Parigi del 1931, 1186 chilometri senza fermarsi, cade sfinito (o forse già ebbro della vittoria) a cento metri dal traguardo, e quando si rialza, è superato da due avversari.
C’è la storia di Vasco Ambroso, che al Giro del Delfinato 1953, nella tappa di Briançon, mentre si trascina sul Tourmalet, è tentato di prendere una “pastiglia energetica” acquistata in farnacia, poi gli viene paura, sa che con le “bombe” non si scherza, e rinuncia.
C’è la storia di Pietro Campagnari, gregario negli anni Sessanta e Settanta, e per questo anche “bandito”, “razziavamo tutto”, “mi è capitato di veder piangere una signora anziana per tutto quello che portavamo via senza pagare e noi a calmarla assicurando che sarebbe passato il direttore di corsa”. Mai successo.


C’è la storia di Rodolfo Falzoni, che “La Gazzetta dello Sport” dà per morto dopo una caduta al Giro del Belgio 1953 e invece resuscita dopo 26 giorni di coma, viene chiamato “l’uomo che ha vissuto due volte”, ed è invitato a partecipare – ospite d’onore – a ciclopellegrinaggi a Lourdes e Roma.


C’è la storia di Dino Verzini, campione del mondo nel tandem con Bruno Gonzato nel 1967, “una specialità dove due uomini, due atleti, due teste, due cuori diventano un tutt’uno”, tant’è che “per sei mesi eravamo stati insieme, a casa mia, condividendo l’ottima cucina di mamma”.

C’è la storia di Michele Merlo, velocista, che al Giro d’Inghilterra 2009 si fa tirare la volata da Geraint Thomas e Chris Froome, che in due avrebbero vinto cinque edizioni del Tour de France (più Giri d’Italia e Vuelta), e anche grazie a quei due campioni vince, poi intervistato deve chiedere a Froome di fargli da interprete perché non sa una parola d’inglese.

Renzo Puliero (e chi altro avrebbe potuto farlo, e farlo con tanta competenza e tanta passione?) ha scritto “Ciclismo a Verona 1880-2020” (Scripta Edizioni, 310 pagine, 20 euro), cioè “piccole e grandi storie di fatiche, sacrifici, speranze, gioie e delusioni ma anche di inganni e tradimenti, degli ex professionisti veronesi”. Puliero divide la sua opera in tre parti, le prime due per ordine cronologico, dal 1880 al 1945, che rappresentano le radici, e dal 1946 al 2020, che sono le ere moderne e contemporanee, la terza dedicata a quelli che non sono veronesi ma che hanno scelto Verona per vivere.

Le storie del ciclismo sono infinite, e infinitamente diverse nei protagonisti, nei paesaggi, nei sentimenti, nelle sfumature. La storia di Francesco Rossignoli, che a 23 anni partecipa al Tour de France, entra in una fuga buona, può diventare maglia bianca di leader dei giovani o forse addirittura maglia gialla di leader assoluto, ma a sette-otto chilometri dall’arrivo fora e addio, gli rimane solo la soddisfazione di essere stato virtualmente al vertice della Grande Boucle. O la storia di Severino Andreoli, che nella tappa delle Tre Cime di Lavaredo al Giro 1967, sotto una bufera di neve, entra nel rifugio Auronzo e per riscaldarsi le mani congelate le mette in una tazza di brodo caldo. O la storia di Senofonte Castellini, pasticcere, che partecipa al primo Giro d’Italia, quello del 1909, grazie a una sottoscrizione lanciata dal quotidiano “L’Arena” fra i suoi lettori.

Puliero raccoglie, ritrova, riesuma, riscopre, rilancia, riprende, rivisita, riscrive la storia del ciclismo in una delle zone più ricche di amore e rispetto per la bicicletta. Qui sono sorte la Bencini e la Garibaldina, qui sono nati Giusti e Gaiardoni, qui sono cresciuti Guerra (Pietro) e Mori (Franco), qui si organizza e si corre, qui si produce e si sponsorizza, qui si pedala e si scrive. Puliero sa che le storie più commoventi e quelle più divertenti sono soprattutto quelle dei gregari e degli isolati. E le premia al valore. E le tramanda alla storia.

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