GAVIRIA, L'AMICO RITROVATO

INTERVISTA | 27/03/2020 | 08:10
di Giulia De Maio

Ieri sera Fernando Gaviria ha ricevuto il via libera e, dopo essere risultato negativo a due test, ha potuto lasciare l'ospedale di Abu Dhabi dove era ricoverato a causa del coronavirus. Noi lo avevamo incontrato  in Argentina, alla Vuelta a San Juan, ed abbiamo avuto un bell'incontro con lui, realizzando un'intervista che è stata pubblicata su tuttoBICI di marzo. Ve la proponiamo augurando a Fernando un pronto recupero.


Fernando Gaviria ha un legame stretto con l’Argentina. Il 25enne colombiano si è presentato al mondo nel 2015 a San Luis quando, con la maglia della Nazionale, battè niente meno che Mark Cavendish. Al­lora era un pistard promettente (da lì a poco si sarebbe laureato campione del mondo dell’Omnium per due anni di fila), una novità curiosa, proveniente da un Paese che fino a quel momento aveva partorito grandi scalatori ma di certo non era tra i più blasonati per quanto riguarda le ruote veloci. Da quando è diventata internazionale, ha sempre raccolto successi alla Vuelta a San Juan: due nel 2017, uno nel 2018, 2 nel 2019, ben 3 nell’ultima edizione. Vederlo a braccia alzate a inizio anno non è sorprendente, ma questa volta vale la pena sottolinearlo perché il por­tacolori dell’UAE Team Emirates era reduce da un 2019 un po’ sottotono. 6 vittorie (tra cui la tappa di Orbetello al Giro d’Italia, per squalifica di Elia Viviani, e altre tre di livello World Tour, ndr) non sono poche, ma non possono soddisfare la fame di un campione del suo calibro che punta a traguardi importanti, tra classiche e grandi giri.


«Nel 2019 ho raccolto meno del previsto. Ho vissuto una stagione regolare, né positiva né negativa, mi auguro e anzi sono convinto che questa sarà migliore. Intanto è partita meglio. Per ottenere una buona condizione non ci sono segreti: bisogna lavorare. Gli anni passano per tutti, stagione dopo stagione cerco di commettere meno errori e migliorare il più possibile. Negli ultimi 5 anni sono cambiato molto: quando vinsi la mia prima co­r­sa con i professionisti la mia aspirazione più grande era vincere gare del mas­simo livello in Sud America, ora tutti si aspettano che io vinca tappe al Giro, al Tour, alla Vuelta. La pressione è aumentata ma va bene così. Sono cresciuto e sono in grado di reggerla, io stesso pretendo da me stesso grandi cose» racconta Fernando, il cui motto è “sfruttare ogni giorno, godersela su e giù dalla bici”.

Importante per lui, senza dubbio, il fat­to di avere ritrovato l’apripista favorito Max Richeze come compagno di squadra. Il campione nazionale argentino lo definisce il suo secondo figlio raccontando di avere a che fare con un “bambinone” che deve imparare a ge­stire il suo talento; a Fernando non piace paragonare il loro a un rapporto padre-figlio per quanto è legato alla sua vera famiglia ma considera Max una sorta di fratello maggiore, senza dubbio una guida in gruppo e non solo, per lui imprescindibile. Lo chiamano el Misil (il missile, in lingua spagnola, ndr), anche se a lui questo so­pran­nome bellico proprio non piace, e per andare in “guerra” Maxi è l’arma in più che gli permette di fare la differenza.

«Avere un treno di cui ci si fida ciecamente è importante, c’è sempre più confusione negli sprint con tanti velocisti che puntano alla vittoria. Maxi non è solo il mio ultimo uomo ma un compagno di stanza e più in generale di vi­ta, visto che abitiamo nello stesso pa­lazzo a Monaco. Mi è stato vicino quando sono passato al professionismo con la Quick Step e tutt’ora ci sentiamo praticamente ogni giorno, è il mio punto di riferimento» spiega Fernando, che sfoggia un nuovo tatuaggio sul collo, il disegno di una palma dedicato a un amico, mentre sulla spalla destra ci mostra fiero l’orologio con le lancette ferme sulla data di nascita del nipote, figlio della sorella Juliana, maggiore di due anni, olimpica nella velocità su pista.

Un altro motivo della rinascita di Fer­nan­do dopo i problemi alle ginocchia che lo hanno frenato nel 2019, c’è ed è visibile ad occhio nudo: è “tirato” co­me non mai.
«Rispetto al Giro dello scorso an­no, peso quattro chili in più. E si tratta per lo più di massa mu­scolare. Quindi: più potenza, più forza, più velocità. Ho svolto più lavori specifici per le volate e curato maggiormente i dettagli, soprattutto per quanto riguarda l’alimentazione. Ho cambiato dieta, eliminando la carne quando sono in Colombia per paura di contaminazioni (Andrea Iannone è so­lo il più recente caso di positività giustificato da atleti di varie discipline con l’aver assunto carne di dubbia provenienza, ndr) e prediligendo il pesce».

Tra i suoi successi spiccano la Parigi-Tours 2016, cinque tappe al Giro d’Ita­lia, dove ha anche conquistato la maglia ciclamino della classifica a punti nell’edizione 2017, e due tappe al Tour de France 2018, tra cui la prima che gli permise di indossare la maglia gial­la. Nella sua cameretta da bambino pe­rò sognava una classica in particolare, che ancora non è riuscito a disputare: la Parigi-Roubaix.
«L’anno scorso ero malato e ho dovuto rimandare il debutto sul pavè. Finora ho avuto meno fortuna nelle corse di un giorno rispetto a quelle a tappe. I migliori risultati che ho ottenuto sono il 5° posto alla Sanremo 2017 e il 6° alla Gand 2016. La Classicissima è un terno al lotto, sul Poggio gli scalatori riescono sempre più a fare la differenza, abbiamo visto come è andata negli ultimi anni... Alla Gent Wevelgem 2019 ha vinto Kristoff, che è mio compagno di squadra, quest’anno proveremo a ripeterci - prosegue, affermando che non avrà alcun problema a dividere i gradi di capitano con il norvegese -. Per le classiche serve esperienza ma anche gambe, per affrontare sei-sette ore in sella bisogna allenarsi, c’è poco da inventarsi. In corsa può succedere di tutto, alla UAE Emirates abbiamo la fortuna che io e Alexander siamo complementari, alla fine si lavora per chi ha più gambe nel finale e l’importante è che vinca la squadra».
Nell’anno olimpico dice di non avvertire alcuna nostalgia per la pista, in questa stagione punta forte alle Clas­siche e al Tour de France.
«Con il programma studiato posso an­dare forte in entrambi i periodi. Non ho ancora visto il percorso della Gran­de Boucle, ha scelto la squadra di schierarmi in Francia e io sono d’accordo, l’obiettivo come sempre sarà vincere più tappe possibili. Mi chiedete se la stagione per me finirà dopo il Tour? Beh, se vinco 10 tappe magari sì (sorride, ndr). Vestire la maglia gialla nel 2018 è stato fenomenale, ma sulle grandi salite sono andato in crisi. C’è chi si attacca alle borracce e alle macchine, io rispetto questo sport a tal punto che, se non ce la faccio a proseguire con le mie forze, preferisco andare a casa».

La sua opinione sul racconto del ciclismo in tv è netta.
«Per abitudine riguardo le mie volate subito dopo l’arrivo giusto per vedere se ho fatto un buon lavoro o meno, per il resto sul piccolo schermo guardo la Moto Gp. Il ciclismo da spettatore non mi piace, lo trovo noio­so. Preferisco uscire a prendermi un gelato piuttosto che stare ore e ore davanti alla tv, ma è solo la mia opinione, so che c’è gente che ama vedere le dirette integrali delle corse. Come fare per renderle più di­vertenti? Non lo so, per le mie caratteristiche io organizzerei solo corse completamente piatte. Almeno, al di là del divertimento, il finale potrebbe essere interessante per me (scherza, ndr)».

La domanda successiva viene spontanea: ti annoi anche in corsa?
«Meno che quando mi alleno da solo, in gara almeno si possono fare due chiacchiere. Certe gare però effettivamente sono noiose anche da correre. Prendete la Milano-Sanremo: nei primi 150 km devi impegnarti per non addormentarti... Anche questo però è il fascino delle Classiche, devi essere concentrato dalla partenza, anche se al 99% tutto si decide negli ultimi chilometri».

Tutte le maggiori squadre hanno sprinter di livello quest’anno, sarà una bella battaglia. Il rivale più temibile?
«Non lo so, voglio lottare con tutti. So­lo battendo i più forti puoi dire di essere il numero 1. I velocisti ci sono sempre stati anche in Sud America ma non c’erano gare nelle quali mettersi in mostra. Alvaro Hodeg per esempio è un ragazzo giovane, bravo e forte, ci siamo allenati spesso insieme in passato. In gara è un rivale, ma giù dalla bici siamo amici».

Lo sprint dei suoi sogni è quello che lo vedrà in trionfo nel velodromo di Roubaix o che gli assegnerà la maglia iridata, sono questi i due traguardi che vuole raggiungere prima di appendere la bici al chiodo.
«Non posso sceglierne uno solo e nean­che limitarmi a sognare. La volata è più intuizione che matematica, le decisioni sono da prendere al momento, i programmi della vigilia o anche solo di dieci minuti prima lasciano il tempo che trovano. Ogni volata è di­versa dall’altra, anche classificare i rivali è difficile: nei tre chilometri finali di una corsa adatta ai velocisti è come essere su un ring, è impossibile non toc­­carsi con il manubrio, tra curve a destra e sinistra, le ca­dute fanno parte del gioco. Devo continuare a lavorare e a fare le cose fatte bene, se no gli altri mi battono. Voglio rendere orgogliosi i miei connazionali, la Colombia è un pae­se stupendo, che tanti purtroppo ancora associano solo alla guerra o al nar­cotraffico. Io con le mie vittorie vor­­rei farlo conoscere per le cose belle che può offrire».

Dall’Argentina alla conquista del mon­do, quest’anno ha tutte le carte in regola per riuscirci.

da tuttoBICI di marzo

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