TUTTI MALATI DI CARAPAZZIA

PROFESSIONISTI | 28/06/2019 | 07:53
di Pier Augusto Stagi

È un Giro che fa storia e racconta ancora una volta una bellissima storia, che sa di favola. Quella di un ragazzo venuto dai campi del Sudamerica, che si veste di rosa e sorride al mondo con il pudore di chi conosce la fatica e non dimentica la strada che è stata percorsa per arrivare al traguardo.
Il Giro applaude per la prima volta nel­la storia un corridore ecuadoriano. Un campesino che di nome fa Richard Ca­ra­paz. È questo ragazzo di 26 anni, nato sulle Ande, che si è portato a casa una delle maglie più prestigiose del ciclismo.


«È bellissima - ha detto dopo un pianto liberatorio tra il tripudio della sua gen­te nell’Arena di Verona lo scorso 2 giugno - è una maglia che ho cominciato ad amare quando la vidi per la prima volta sulle spalle di Marco Pantani, la mia vera ispirazione». E aggiunge: «Sono nato in un paesino a 20 minuti dalla Colombia e lì ho vissuto fino a quando ho cominciato a correre in proprio Colombia. Prima però ho lavorato per la famiglia, mi sono dato da fare come tutti. Quando ero adolescente, mamma si è ammalata di cancro e per qualche tempo mi sono preso cura del­le mucche: davo loro da mangiare, e le mungevo. Grazie a Dio oggi è guarita: quella è la vittoria più bella di tutte».


BICICLETTA SCASSATA. È un uomo che parla senza enfasi, con la semplicità di chi sa dare valore alle cose. Parole sussurrate, per un ragazzo che sa ascoltare i silenzi. Nato a tremila metri, sa volare in bici, ma Carapaz mantiene ben saldi i piedi per terra. È di El Carmelo, la sua “parroquia”, l’area rurale in cui è cresciuto. «Lì ho i miei affetti, la mia gente la mia prima bicicletta scassata, che i miei genitori mi regalarono dopo averla presa in una discarica - racconta Richie, come ama essere chiamato: al­tro che la “locomotora del Carchi” -. Guai chi me la tocca quella bici. Il presidente Moreno la vorrebbe da esporre in un museo, ma quello è un bene troppo prezioso».

Dona Ana, la mamma, qualche giorno fa ha raccontato la genesi di Richard ciclista: «A 8 anni mio figlio aveva una mountain bike, ma a lui non piaceva, diceva che era pesante. Preferiva una bici scassata, senza pneumatici, e con questa si divertiva a saltare gli ostacoli».
Non c’è verso, per il momento, di fargli cambiar idea. Testa dura e gambe di ferro. Scalatore puro, capace di tirare anche lunghi rapporti. Testa incassata e mani sul manubrio. Pedala seduto sulla sella, ma è capace anche di scattare, quando è necessario. Come a Fra­scati o a Courmayeur, tappe da lui vinte.

Il momento più duro?
«Il finale a Monte Avena, sabato, dove tutti eravamo quasi al limite delle for­ze. Però la fatica e la sofferenza dello scorso anno sullo Zoncolan non l’ho mai più provata». 

All’arrivo di Monte Avena, alla vigilia del trionfo, ha trovato la moglie Tania Ro­sero e i figli, Sofia di 2 anni e San­tiago di 5, oltre al cugino Omar Cha­mor­ro e al suo amico del cuore San­tiago Alvarado. A Verona, per la grande festa finale e totale, c’erano anche mamma Ana Luisa Montenegro e il papà Antonio.

CARAPAZZI. Un Paese impazzito e in festa, che non sta più nella pelle. Il presidente della Repubblica, Lenin Mo­re­no, ha scritto un tweet per annunciarla e ha fatto tutto il necessario per facilitare il rilascio dei visti d’espatrio dei familiari del ragazzo: al rientro in patria riceverà come premio un’alta onorificenza. «Per il tuo Paese sei un orgoglio», ha detto. 

A Quito, la capitale, e a Tulcàn, città capoluogo del Carchi è scoppiata letteralmente la “carapazzia”. Una malattia curabile ma al momento incontenibile. «Sono felice e quasi incredulo di quello che ho saputo fare - dice il diretto interessato -. E sono felice di quello che sta provando la mia gente. Se questa vittoria genera gioia, io non posso che es­serne felice. Spero di poterne regalare altre, di giornate così».

ARTE  TOPIARIA. Ricky è nato a Tulcan, capitale della provincia del Carchi, ter­ra di acque termali e arte topiaria (arte di potare alberi o arbusti al fine di dare loro una forma geometrica, ndr). Dal suo piccolo borgo Julio Andrate, sito a 3000 metri è dovuto migrare in Co­lom­bia. È quindi un corridore di frontiera, nato e cresciuto in Ecuador, ma sul confine con la Colombia, in una località chiamata El Carmelo, dal nome del­la parrocchia.
Qui si vive di agricoltura: campi e be­stiame. Il nuovo padrone del Giro ha alle spalle una famiglia semplice e contadina: braccianti. Per molti questo ra­gazzo è la «La Locomotora (locomotiva) del Carchi», lui ama molto più sem­plicemente essere chiamato «Ri­chie e basta».

PANTANI. Richie è la maglia rosa più alta della storia del Giro, essendo nato e vissuto a 3 mila metri. È abituato a scalare montagne e non solo in bici: sul suo profilo Instagram ha caricato foto di cime «conquistate» a piedi. Nel 2013 il ragazzo si fa notare vincendo la Vuel­ta del Guatemala con un team ecuadoriano. I colombiani che hanno il ciclismo nel sangue e l’occhio lungo, non se lo fanno sfuggire. Lui non ci impiega molto a ripagarli, vincendo la Vuelta de la Juventud de Colombia. È sufficiente questa corsa per farlo entrare nei radar degli osservatori europei, in particolare spagnoli: prima la Lizarte di Pamplona e poi la Movistar, il club attuale di Eu­sebio Unzue. Il Giro ha un sapore speciale per lui: «Grazie ai video su internet, mi sono appassionato a Pantani. Guardavo le sue imprese al computer. Mi è sempre piaciuto il suo incedere in bicicletta. Mani basse sul manubrio e alta frequenza di pedalata. Tutto fuorisella. Io non sono così, perché Pantani è unico».

INCIDENTE. È un sopravvissuto. Nel 2014, mentre si allenava sulle strade di casa, viene investito da un’auto. Perde conoscenza, e viene operato ad una gamba. «Fortunatamente lo posso raccontare, e soprattutto sono tornato quello di prima», dice.

POPOLO. Numerosa è la comunità degli ecuadoriani nel nostro Paese: nel 2016 i residenti ufficiali erano 83.120. Pro­fes­sioni umili: badanti, colf, autotrasportatori, muratori. Quasi tutti tra Mi­lano, Torino e Genova. Almeno altri 50 mila sono in attesa di regolarizzazione. «È bello, sono contento, mi emoziono quando vedo sulle strade la mia gente, con le nostre bandiere. Io ho sempre corso per l’Ecuador. È vero, sono di­ventato corridore vero in Colombia, le radio e le tv colombiane mi hanno adottato considerandomi uno di loro, ma io ho l’orgoglio di essere ecuadoriano».

LA SQUADRA. «Sono davvero grato a tut­ti i miei compagni: senza di loro quello che ottenuto non era possibile. Siamo un gruppo eccezionale, che ha fatto una cosa fantastica. È stata una squadra da 10. Poter rifinire un lavoro così è un sogno grandissimo. Sono contentissimo anche perché tutti i miei compagni si sono impegnati al cento per cento per far sì che io e Mikel riuscissimo a concludere il Giro nella miglior posizione possibile».

LANDA. «Cosa ho pensato quando Mi­kel Landa è scattato sul Croce d’Aune? Niente. Sapevo che l’avrebbe fatto, perché era pianificato. Sapevamo che l’ultimo chilometro era molto duro e Mi­kel aveva buone gambe, così ha attaccato. Io controllavo gli eventuali attacchi, chi era capace di muoversi. Nibali è stato eccezionale in discesa ed è an­dato a chiudere. Nel finale abbiamo trovato l’accordo tra noi tre perché Landa puntava al podio, ma anche Nibali aveva interesse a distanziare il più possibile Roglic».

ABBRACCIO. «Cosa mi resta di questa vittoria? La maglia rosa. Tre settimane indescrivibili, di un’emozione unica. L’affetto degli italiani: siete un grande popolo, una grande nazione. Ma nel mio cuore mi resta anche e soprattutto l’abbraccio finale tra me, Nibali e Lan­da? Vincenzo è un grandissimo, uno dei più grandi ciclisti degli ultimi anni, ha fatto la storia di questo sport. Me­ri­ta solo ammirazione, e io l’ho ammiro tanto. Quell’abbraccio per me è troppo prezioso».

da tuttoBICI di giugno

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