
Un giorno di vantaggio sul gruppo, sulla carovana, sulla corsa. Ma le stesse tappe, le stesse strade, gli stessi chilometri. Paola Gianotti, la giramondo, è pronta ad affrontare il suo secondo Giro d’Italia, 24 ore prima dei 176 corridori, dei 1500 addetti ai lavori, dei milioni di spettatori, prima di tutti.
Perché?
“Per la sicurezza. E’ il mio giro, o la mia campagna, per ricordare il rispetto dei ciclisti sulla strada. L’Italia, in percentuale rispetto agli abitanti, è il Paese con il maggior numero di auto, con il minor numero di ciclisti e con il maggior numero di morti in bicicletta. Uno ogni 35 ore. Una strage silenziosa. E’ il Paese in cui i bambini non vanno più in bici per paura, ma anche quello in cui la bike economy è in maggiore crescita. Oggi ha raggiunto i sette miliardi l’anno”.
L’anno scorso?
“Fu una novità, una scoperta, una sorpresa. Fu un’esperienza molto positiva. Le mie pedalate – di solito - mi portano fuori dal mondo: nella natura, nella solitudine, nel silenzio. Mi portano agli estremi. Invece quel giro d’Italia mi proiettò fra la gente, con la gente, nella vita di tutti i giorni. Non ci fu un solo giorno in cui pedalai da sola”.
Poi?
“La possibilità di vedere, conoscere, esplorare non il mondo selvaggio, ma quello quotidiano. Che per i ciclisti significa rischi, pericoli, incidenti, vite spezzate, limitate, ridotte. E ancora gli incontri: con la famiglia Pantani, con la famiglia Scarponi, e con ex corridori che continuano, a loro modo, a essere ambasciatori della bicicletta e del ciclismo, come Maurizio Fondriest, Cristian Salvato, Alessandro Ballan…”.
L’Italia?
“Ancora bella, bellissima, di una bellezza a volte travolgente. Fisicamente, fu dura. I chilometri, le distanze, le montagne… Non c’è villaggio, borgo, paese, che non abbia una salitella micidiale. E il Giro le comprendeva tutte”.
Stavolta?
“La stessa filosofia del 2018. Il mio staff, con fisioterapista, psicologo, uno specialista per i social e uno per l’organizzazione logistica. E il camper, dove dormire, anche se nel 2019 una tappa partirà da Ivrea, dove abito. Poi tanti ospiti, tutti quelli che si uniranno per un breve o un lungo tratto, o per un’intera tappa. Infine i miei appuntamenti con bambini e adulti, minitraguardi ed eventi, e sempre una squadra che mi accompagna negli ultimi chilometri di ciascuna tappa fino all’arrivo. In più, la speranza di poter pedalare non solo con gente del ciclismo, ma anche con quella fuori dal ciclismo, ma che si riconosce nei valori della bicicletta”.
A quali pensa?
“Il rispetto dei ciclisti, il rispetto dell’ambiente, il rispetto dell’umanità”.
Sulla strada, che cosa si può fare?
“Se nel 2018 la mia era una campagna di sensibilizzazione, nel 2019 lo sarà per azioni più concrete. A cominciare dalla distanza minima, quella di un metro e mezzo, nel momento in cui si sorpassa chi va in bici. Nelle scuole-guida non lo insegnano, ma quando un’auto o, a maggior ragione, un camion o un pullman superano, è come se aspirassero, come se risucchiassero fino a inghiottire chi va in bicicletta. Da quando ho applicato il cartello di un metro e mezzo nella parte posteriore dei miei pantaloncini, mi sono accorta che la situazione è cambiata: gli automobilisti rallentano, leggono, allargano, guidano con molta più attenzione e prudenza. Non mi era mai successo prima”.
Altrove?
“Recentemente sono stata a Gran Canaria. Là non esiste strada dove non ci siano spazi e segnaletica per proteggere i ciclisti. Di ritorno, volevo fare il giro del Lago di Garda: ma dopo una cinquantina di chilometri, sono tornata indietro, spaventatissima”.
Morale?
“Non è vero che i ciclisti sono i buoni e gli automobilisti sono i cattivi. Esistono ciclisti e automobilisti educati così come esistono ciclisti e automobilisti maleducati. Con una differenza sostanziale: il ciclista maleducato fa del male a se stesso, l’automobilista maleducato lo fa agli altri”.
Per chi va in bici?
“Come si diceva per chi va in moto: casco in testa, ben allacciato; e luci accese, anche di giorno. Meglio quelle lampeggianti: si notano e durano di più”.
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