L'ORA DEL PASTO. LE TAPPE DI ARDOLINO

STORIA | 18/03/2019 | 07:05
di Marco Pastonesi

 


Prima tappa, il nome: Ardolino. “Una mezza fregatura. Sui giornali lo storpiavano in Aroldo, Arnoldo, Arnaldo, perfino Arrotino. E non so perché mi battezzarono così”.


Seconda tappa, il cognome: Zancanaro. “Forse deriva da ‘zanca’, un pezzo di ferro, o da ‘zanche’, trampoli, chissà”.

Terza tappa, la famiglia: veneta. “A comandare erano i nonni. Quello paterno negoziante di cavalli a Monselice, quello materno a San Pietro, un giorno disse che andava a Venezia a fare il pescatore, ma non è più tornato, stiamo ancora aspettando notizie”.

Quarta tappa, la nascita: a Anguillara Veneta. “Il 4 dicembre 1932. Ma a un mese ero già a Valmadonna, nell’Alessandrino. Mio padre si era trasferito in Piemonte per cercare lavoro. Contadino. Prima sotto padrone, poi in proprio. Gli altri fratelli e sorelle sono nati qui. Io, il secondo di sette, quattro fratelli e tre sorelle. Dei quattro fratelli, altri due corridori, Giorgio, una vittoria di tappa anche al Giro d’Italia, e Sergio, solo un anno da allievo, poi imprenditore edile di successo in Francia”.

Quinta tappa, la bicicletta: il ciclismo. “Lavoravo, non avevo tempo per allenarmi, correvo con gli amici, li battevo. Dalle nostre parti c’era Ugo Massocco, che poi avrebbe corso con la Girardengo, la Legnano, l’Ignis… Cominciai a gareggiare da allievo, poi da dilettante, ingaggiato dalla Ceat a Torino, mangiare e dormire gratis in albergo, una fortuna. Una settantina di vittorie, fra cui il Giro del Sestriere e la Torino-Valtournanche, e due selezioni per i Mondiali, ma Giovanni Proietti, il c.t. della nazionale, prendeva solo chi pagava, e così ne rimasi fuori”.

Sesta tappa, il professionismo: con la Carpano. “Nel 1958, fu Fausto Coppi a darmi questa possibilità. Quell’anno disputai solo quattro corse: Milano-Torino, Giro di Toscana, Giro del Piemonte e Giro della provincia di Reggio Calabria. Qui sfiorai la vittoria: Coppi mi disse ‘vai, vai, vai’, io andai, staccai tutti sul Sant’Elia, in palio 200 lire per il gran premio della montagna, facevano comodo anche quelle, a 35-40 chilometri dall’arrivo ero da solo, ma in discesa forai due volte e venni ripreso. Senza le forature, chissà, io dico che ce l’avrei fatta”.

Settima tappa, le gomme: Hutchinson. “La colpa è loro. Prima avevamo i Pirellini, seta foderata di gomma, perfetti per la strada anche ghiaiata. Ma erano troppo cari. E passammo agli Hutchinson. Costavano la metà, però non andavano bene neanche per fare la spesa: si crepavano e poi scoppiavano. Allora mi arrangiai: tornai dalla Pirelli, mi feci dare i Pirellini gratis in cambio della pubblicità. I dirigenti della Carpano si arrabbiarono, ma pazienza”.

Ottava tappa, Fausto Coppi: il Campionissimo. “Se lo avessi incontrato prima, sarebbe stato meglio. Nei suoi anni d’oro avrei guadagnato di più. Ma anche così mi andava bene. Con lui passai un mese in montagna, a Bardonecchia, e un altro in riviera, a Bordighera. Ci si allenava insieme, si mangiava insieme, ma non si dormiva insieme. La sera lui diceva che andava al bar e che sarebbe arrivato ‘un po’ tardi’. Una volta Vincenzo Giacotto, il direttore sportivo, mi chiese di Fausto, gli dissi che era uscito e che sarebbe tornato più tardi, tornò, ma la mattina dopo, dormiva all’Hotel Genovese a Varazze con la Dama Bianca. Era una bella donna. Era bella per tutti”.

Nona tappa, la vita: la vita del corridore. “Gregario. Scalatore puro, ma anche passista. Cuore lento, pressione bassa, d’estate non pesavo neanche 70 chili. Si guadagnava, non come adesso, ma fra una cosa e l’altra abbastanza per comprarsi una casa. Coppi ci faceva fare i circuiti, pomeriggio o sera: io prendevo 60-70 mila lire, lui 200-300 mila. Qualche piazzamento. Diciottesimo alla Milano-Torino del 1959, quarto nella cronoscalata Monaco-Mont Agel vinta da Federico Bahamontes, ma solo perché nell’ultimo chilometro c’era così tanta gente in mezzo alla strada che dovevo frenare”.

Decima tappa, la vita: la vita del contadino. “Morto Coppi, smisi di correre. Tornai a quello che avevo sempre fatto e a quello che avrei continuato a fare: coltivare la terra. Anche adesso, a 86 anni. L’orto, il granoturco, l’erba medica. La vigna no, non più. Da noi, di un impegno che richiede troppo tempo, si dice: lungo come una vigna”.

 

 

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