
Sala Bolognese. A tre chilometri dall’arrivo, il gruppo di testa sbanda, deraglia, piomba a terra. Lui precipita addirittura dentro un fosso. Prima di capire che cosa gli è successo e riprendersi dallo shock, vede sfrecciare il secondo gruppo di corridori, che da inseguitori diventano fuggitivi. Allora torna sulla strada, raddrizza il manubrio, si rimette in sella e comincia a recuperare, e ad acciuffarli, a uno a uno. Più per senso di giustizia che di vendetta, più per passione che per rabbia. E vince. La prima vittoria della carriera.
Ermanno Benetti non ne ha vinte molte altre. Non per carenza di qualità, ma di occasioni, opportunità, circostanze. Domenica scorsa era alla “Bici al chiodo”: svelto e leggero, nonostante i quasi 81 anni, la dimostrazione che pedalare è un elisir. Carpigiano (“Cortile di Carpi, una frazione”), genitori braccianti (“Si tirava la corda”), terzo di tre figli (“Un fratello e una sorella”), quinta elementare (“Non avevo ancora finito di studiare che già lavoravo”), poi garzone falegname (“E quando smisi di correre, tornai a fare il falegname”). Intanto, però, la sua grande passione: “Prima la bicicletta, poi il ciclismo. Cominciai a pedalare sulla bici da donna di mia madre, l’unica disponibile. A 15 anni riuscii finalmente ad avere una bici da corsa, una Wander, acquistata a Parma”.
Da quel giorno Benetti andò via col vento: “La prima corsa da esordiente, vicino a Carpi. Andai bene, mi piazzai. La prima vittoria a Sala Bolognese. Correvo per la Nicolò Biondo di Carpi, uno squadrone, fra i dilettanti c’era Ercole Baldini. Il primo anno da allievo, nel 1955, conquistai il titolo di campione emiliano-romagnolo. Il secondo anno da allievo, nel 1956, il titolo ce lo giocavamo a Forlì, in programma due volte la salita della Rocca delle Caminate. Passai una settimana ospite a casa di Baldini, a Villanova di Forlì: lui era militare a Bologna, andava e tornava tutti i giorni in bici, io mi allenavo e studiavo il percorso. Il giorno della gara mi misi d’accordo con il più forte, Romeo Venturelli, della Pavullese. Lo conoscevo: c’era poco da fidarsi. Feci il duro. Gli dissi ‘Meo, tu devi stare con me, tu devi fare quello che ti dico io’. Il primo giro obbedì. La seconda volta che c’era da affrontare la Rocca delle Camminate, con un gruppetto con un vantaggio di una quarantina di secondi, Meo non resistette alla tentazione, partì da solo, lo prese, ma ai piedi della salita non ne aveva più. Lì partii io ma, da solo, fui ripreso a due chilometri dal traguardo, e arrivai terzo”. Meo era fatto così: “La settimana dopo si disputava il Gran premio Pibigas, la rivincita del campionato italiano. ‘Meo, stavolta tu devi stare veramente con me, stavolta tu devi fare veramente quello che ti dico io’. E stavolta lo fece, rifilammo due minuti a tutti, e ce la giocammo in volata, primo Meo, secondo io”.
Fu così che nel 1957, primo anno da dilettanti, Benetti passò con Meo: “Mi aveva chiesto la Pizzoli di Bologna, offrendomi un posto di lavoro nelle ferrovie. Preferii la Pavullese, che mi aveva promesso mangiare e dormire gratis nell’albergo Speranza di Pavullo. Era uno squadrone, con i fratelli Giusti, Giordano e Gabriele, due volte campione italiano tra gli juniores, e Trento Montanini, uno stratega, direttore sportivo. C’era da correre e divertirsi, da correre e vincere, da correre e sorprendersi. Con Meo ogni corsa era un’avventura”. Tanto che perfino Fausto Coppi cominciò a interessarsi a quei ragazzi dell’Appennino modenese: “Venne a vederci nell’Astico-Brenta. Ci trovammo a Verona, lui in macchina con la Dama Bianca, noi su quella di Trento. Eravamo così smaniosi di vincere che all’ultima curva Meo si rovesciò a terra e io gli finii addosso”. Però Coppi continuò a frequentare loro: “Rimaneva qualche giorno in albergo, si allenava con noi, da Pavullo la strada scende o sale, per Sestola, per il Barigazzo, per l’Abetone”. E loro continuavano a frequentare Coppi: “Il 20 ottobre 1959 si gareggiò nel Mantovano, finita la corsa proseguimmo in bici fino a Novi Ligure, arrivammo alle nove di sera, andammo a dormire nella casa del corridore di Biagio Cavanna. Il giorno dopo tornammo a casa in bici”. Cavanna regalava a tutti un massaggio: “Venturelli gli piaceva, ma Giordano Giusti di più. Diceva che aveva i muscoli perfetti per il ciclismo”.
Ormai c’era l’accordo: “Meo e io saremmo passati con Coppi nella San Pellegrino. Ma la morte di Coppi sconvolse i nostri piani: Meo passò, io no”. Ancora dilettante: nella Strucchi di Correggio, nel Pedale Carpigiano e nel Pedale Modenese. “E nel 1963, finalmente, professionista. Ma senza fortuna. Prima nella San Pellegrino, che però chiuse, poi nella Firte, che però fallì”. La Firte, Fabbrica italiana radio televisioni elettrodomestici, aveva la sede a Varese, dove c’era l’impero di Giovanni Borghi, padrone dell’Ignis e della Fides. “Per battere la concorrenza dei frigoriferi della Firte a 70mila lire, Borghi abbassò i costi dei suoi a 40mila”. Poche corse, la migliore nella Coppa Agostoni: “Ero con i primi fino a 2 chilometri dall’arrivo, poi mi staccai”.
Benetti rimase a spasso. Aveva 25 anni: “Ricominciai a fare il falegname. Ma la passione mi è sempre rimasta dentro. Fino a settembre giravo con la bici da corsa, adesso con quella sportiva, magari con la primavera torno su quella da corsa”. Giretti. Piste ciclabili. Ricordando. Sognando.
Nella foto, da sinistra, Gabriele Giusti, Meo Venturelli e Ermanno Benetti
Se sei giá nostro utente esegui il login altrimenti registrati.