ADISPRO. PELLIZOTTI RACCONTA IL TOUR E GUARDA AL FUTURO

PROFESSIONISTI | 27/07/2018 | 07:13

Che fosse speciale il rapporto tra Franco Pellizotti e Vincenzo Nibali, non v’era alcun dubbio. Migliaia di km assieme, in macchina, in bici, in aereo, centinaia di stanze condivise, molte risate, tante gioie e qualche pianto. Emozioni forti. Un delfino e uno squalo, due destini che si incrociano da sempre, dai tempi della Liquigas, quando nel 2006 un promettente Nibali allora ventiduenne incontrava Franco Pellizotti, di sei anni più anziano e già pronto a consigliarlo e supportarlo.


Poi nella vita, così come nel ciclismo, a volte le strade si dividono per poi incrociarsi nuovamente. Come quando nel 2017 “lo Squalo dello Stretto, nel frattempo diventato un campione indiscusso, chiama con sè al Team Bahrain Merida il “suo” gregario per eccellenza, un gregario di lusso, quel Franco Pellizotti che in salita non tradisce mai. Una storia di amicizia vera, prima ancora che sportiva, che non pare fermarsi qui: conclusa questa edizione del Tour de France infatti, il delfino di Bibione raggiunti i 40 anni sta pensando di voler continuare a supportare il suo capitano, Vincenzo Nibali. Questa volta però non in sella alla bici, ma dall’ammiraglia.  


Franco, un Tour de France così intenso e movimentato non si vedeva da tempo. Un addio prematuro per Nibali, cos’è successo?

«Un laccio di una macchina fotografica si è agganciato alla leva del cambio. Un fatto assurdo, c’era una possibilità su un milione. Nella caduta di Vincenzo la sicurezza ha lasciato un po’ a desiderare. L’organizzazione non è riuscita a contenere i tifosi e la sfortuna ha fatto il resto. Casualità, sfortuna e un’organizzazione così così».  

Cosa avrebbe dovuto fare l’organizzazione del Tour de France per evitare questo incidente?

«Se avessero contenuto gli spettatori non sarebbe successo. Poi ora ci sono fumogeni, una cosa assurda che ha preso piede. Non ne capisco il motivo sinceramente. La strada non è uno stadio».

Quali aspetti si potrebbero migliorare?

«C’è molto da lavorare sul Tour, non è una cosa semplice. C’è tantissima gente sulle strade e non è per nulla facile da contenere. Anche le stesse persone dovrebbero essere maggiormente consapevoli ed educati a stare sulle strade. Per il pubblico il Tour è una grande festa dove anche i tassi alcolemici fanno la loro parte. Bisognerebbe cercare comunque di rispettare i corridori e di farli correre in sicurezza».  

Ma il Tour è il Tour, insomma, l’Appuntamento dell’anno.

«Certamente! E’ bellissimo vedere le coreografie delle migliaia di persone sulle strade. Poi qualcuno si fa prendere un po’ la mano ma è sempre stato così. Il pubblico da sempre si apre al passaggio dei corridori, il ciclismo è questo, è uno sport che si consuma in strada, la gente vive il contatto con i corridori, è molto difficile contenere l’entusiasmo a volte».  

Nello specifico, qual è la differenza con il Giro d’Italia?

«Io distinguerei le due cose. Nello Zoncolan c’è cordone di sicurezza degli alpini e della protezione civile di circa 3 km, mentre la salita e le ali di folla dell’Alpe d’Huez sono di 12 km. Da sotto a sopra c’è una folla incredibile».  

Ti senti di fare un appello ai tifosi?

 

«Il tifo francese è molto caloroso, al passaggio dei corridori c’è moltissimo entusiasmo, le persone si fanno prendere un po’ la mano. Poi se aggiungiamo gli scioperi, le proteste, gli agenti che per disperdere utilizzano gli spray urticanti..beh diciamo che la cosa diventa poco gestibile. Il Tour de France è una macchina talmente grande che offre molta visibilità, per questo alcune persone sono disposte a tutto pur di farsi notare. Il ciclismo dovrebbe educare di più al controllo i propri tifosi. L’entusiasmo va bene. l’eccesso no. E’ sicuramente un lungo lavoro da fare da parte delle federazioni anche se alla fine il rispetto del gesto atletico e dello sport sta alle persone».

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