Vent'anni fa la scomparsa di Jacques Anquetil

| 17/11/2007 | 00:00
Venti anni fa, a soli 53 anni di età, moriva Jacques Anquetil, uno dei talenti maggiori della storia del ciclismo. Interprete impareggiabile delle corse a cronometro, in una attività svolta dal 1954 al 1969, Anquetil seppe conquistare 5 Tour de France, 2 Giri d’Italia, con l’accoppiata Giro-Tour nel ’64, una Vuelta Espana, 9 edizioni del Gran Premio delle Nazioni, sei delle quali (’53-’58) consecutive, e 3 del Trofeo Baracchi a coppie, affidando sempre alla nitida sanzione delle lancette i suoi trionfi ed il suo primato. Lontano dal novero dei campioni che dettarono emozioni, diverso dal mite connazionale Poulidor e dal nostro gentile Gimondi, diverso da uno scalatore leggiadro come Gaul, diverso pure da un velocista accattivante come Van Looy, l’Anquetil che non passò mai per primo sul colle di un Tour, lui, il biondo intrigante ‘Jacquot’ dalla personalità forte, a contrasto dei lineamenti raffinati, fu l’antesignano altresì di un ciclismo alle prese già allora con la querelle doping. Proprio Anquetil, nella sua unica grande corsa in linea vinta, la Liegi-Bastogne-Liegi del ’66, oltre 4 minuti sul secondo, rifiutò infatti di sottostare ad uno dei primi controlli antidoping dell’ Uci. E ribadì cocciutamente questo ruolo di leader degli avversari dell’antidoping, nello stesso anno, ai Mondiali di Adenau, vinti da Altig, quando convinse tutti gli atleti a non accettare l’antidoping. Ma questo atteggiamento di irredentista del ciclismo, che nel ’66 gli era costato solo una multa ridicola, lo avrebbe pagato a caro prezzo l’anno dopo, quando il nuovo record dell’ora (47,493) da lui stabilito al Vigorelli, il 27 settembre, non sarebbe stato omologato: ‘per mancata presentazione al controllo medico’. Era d’altronde il 1967, l’anno della morte di Simpson, ed il ciclismo ed il suo mondo cambiava amaramente. Finiva, se c’era stata mai, la poesia, cominciava la prosa. Anche per Anquetil, il purosangue francese genio e sregolatezza, guardato con sospetto se non con invidia nel ciclismo calvinista di allora, lui che cambiava donne come fossero le casacche delle squadre da mutare ad ogni stagione e che fu in fondo il primo ciclista moderno. Lui, che pure in ritiro, impunito, si concedeva champagne ed ostriche, perché aveva il culto fiero della vita. Quella così raggiante, sia pure oltremodo breve, di un campione, signore almeno, contro il tempo, del suo tempo. Gian Paolo Porreca
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