| 21/06/2007 | 00:00 Regole poco chiare, decisioni unilaterali, criminalizzazione dei corridori: l’Assocorridori italiana – d’accordo con l’internazionale CPA – dice no all’Unione Ciclistica Italiana.
L’ultimo progetto antidoping presentato dall’UCI accresce la pressione sugli atleti, la componente meno tutelata del ciclismo, senza che le richieste delle associazioni che raggruppano i corridori vengano minimamente prese in considerazione. Nessuna responsabilità viene riconosciuta, in caso di doping, al team in cui milita l’atleta o al rispettivo manager. E’ il singolo corridore a dover pagare (in termini disciplinari ma anche economici) il fatto di essere eventualmente caduto in tentazione. L’UCI sembra ignorare totalmente quanto emerso in passato e confermato ancor oggi da talune inchieste: è accaduto che gli stessi team imponessero agli atleti il cosiddetto doping di squadra. Eppure, secondo l’UCI, è sempre e soltanto il corridore a dover pagare…
Che dire, poi, dell’obbligo di segnalare in anticipo, per 365 giorni all’anno, tutti i propri movimenti così da poter essere, sempre e comunque, sottoposti ai controlli a sorpresa? Non è forse una regola contraria alle norme poste a tutela della privacy? Il problema-doping è troppo serio per poter essere risolto con semplici provvedimenti di facciata, che infieriscono sui corridori senza produrre soluzioni. L’ACCPI non ci sta.
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