Era la vigilia del prologo del Tour de l’Avenir 2014 e con i miei compagni di nazionale ero in una creperie: mi stavo gustando una crepe super con gelato e sciroppo d’acero. Ricordo bene che un membro dell’organizzazione della corsa e, vicino al nostro tavolo ci guardava severo. I suoi occhi ci giudicavano e mi disse: «La mangi la sera prima della gara? Buona fortuna per domani...».
Quel 2014 era stato per me un anno difficile: puntavo a far bene all’Olympia’s Tour e alla Ronde Van Vlaanderen Under 23, ma in entrambe le occasioni guai fisici mi hanno impedito di far bene. Dopo una breve vacanza a metà stagione a Barcellona con alcuni dei miei compagni di squadra, sono ripartito con un approccio nuovo, ero più rilassato. A giugno 2014, avevo 21 anni, vivevo in Italia, mi allenavo ogni giorno nelle migliori condizioni possibili, senza stress e questa è stata la ricetta perfetta per costruire il progetto Campionato del Mondo. Dopo un ottimo ritiro a Livigno tra giugno e luglio, l’intera nazionale australiana è arrivata in Italia ad agosto. Ero in ottima forma e ho dato il massimo per aiutare Rob Power a vincere tre grandi corse, tra le quali la più prestigiosa per la nostra categoria: il GP Capodarco.
Il ciclismo è uno sport di squadra, ma quando i tuoi compagni di squadra sono anche i tuoi migliori amici, allora c’è un valore aggiunto. Dai sempre qualcosa in più e nella seconda parte di quel 2014 per noi era così, una sensazione che - sono sicuro - molti di noi non proveranno mai più.
Fatta questa premessa, torniamo al Tour de l’Avenir e al prologo: ricordo di essermi riscaldato come se fosse la mia ultima cronometro della carriera. Nelle orecchie mi risuonavano le parole di quel francese alla crepe, parole che riflettevano l’aspetto della cultura del ciclismo che odiavo di più. Le sue parole mi riempivano la mente e decisi che dovevo vincere quel prologo. E spero che lui mi abbia visto sul podio quel giorno, con il sorriso in volto e la crêpe in pancia.
Ho indossato la maglia gialla per un giorno e il resto del Tour è stato un vero piacere: ho pedalato sulle Alpi, percorso strade che avevo visto solo in tv, è stato davvero indimenticabile. Caleb Ewan ha vinto una tappa e Rob Power ha lottato per la vittoria finale. È stata di gran lunga la miglior settimana di gare che abbia mai vissuto.
Subito dopo, la mia attenzione si è concentrata sui mondiali: sapevo di essere la terza scelta per la crono, siamo andati a giocarcela in tre alla Chrono Champenois, per fortuna sono finito sul podio e mi sono conquistato il biglietto, l’unico a disposizione, per Ponferrada.
Per cinque giorni ho vissuto con tre membri dello staff della nazionale in un cottage alla periferia di Ponferrada. Non avevo mai osservato un regime di quel tipo, ma volevo a tutti i costi vincere quella gara. Lo choc del debutto mondiale nel 2013 mi bruciava ancora...
Due giorni prima della crono ho ricevuto una chiamata dal mio manager. «BMC ha un contratto pronto per te - mi disse - : lo vuoi firmare?».
Prima di quella telefonata ero indeciso sul mio futuro: pensavo di disputare la crono mondiale e poi fare il punto, ma quella chiamata ha improvvisamente cambiato la mia prospettiva. Non appena ti viene offerto qualcosa per cui hai lavorato per quattro anni, devi prenderlo al volo. Lo dovevo a me stesso e a tutti quelli che mi avevano aiutato lungo la strada. Nel giro di 5 secondi, la mia mente si era già proiettata sulla prospettiva di correre per una delle squadre più forti del mondo.
Mentre mi stavo riscaldando per la crono, ricordo di aver visto dieci membri dello staff di Cycling Australia tutti impegnati per un solo corridore: io. L’unico modo per ripagarli era vincere. Mi sono ripetuto una frase che ho letto e che conservo nella mente - “Non sei mai bravo come tutti dicono quando vinci, e non sei mai così male come dicono quando perdi” - e sono partito: fortunatamente, la giornata è stata perfetta, ho vinto solo per mezzo secondo, ma ho vinto. Ero campione del mondo. È ancora oggi quello è il miglior giorno della mia vita.
Un passo indietro: a febbraio 2014 avevo prenotato un viaggio negli Stati Uniti con alcuni amici per novembre e dicembre, ovviamente tutto è saltato perché mi sono allenato e poi sono volato in Spagna a dicembre per il camp della BMC. Qui ho conosciuto lo staff e gli altri corridori del team: sembrava un sogno. Mangiare allo stesso tavolo di ragazzi che avevo visto solo n tv, uno staff di trenta persone che fanno tutto per te, i pullman, i camion, le ammiraglie... Non ci potevo credere.
La mia prima gara con la BMC è stata il campionato australiano: sesto posto nella crono e quarto nella corsa in linea. Dopo quest’ultima, mi hanno chiamato al controllo antidoping e ho perso il volo per Adelaide, per il Tour Down Under. Nessun problema per la squadra: mi hanno mandato l’autista di Cadel Evans, ho dormito a casa sua a Barwon Heads e l’indomani ho preso il volo per Adelaide. Mi trattavano come un re, non potevo avere di meglio.
Il Tour Down Under è iniziato bene, mi sentivo come se facessi parte della squadra da sempre. Nella seconda tappa, quella di Sterling, mi sono trovato davanti nel finale. Non so nemmeno io perché, visto che è un arrivo duro, ma ero lì. Sono arrivato senza energie, disidratato e poco lucido, così tornando in hotel sulla vecchia strada di Mount Barker sono caduto a 50 all’ora, potete trovare ancora qualche brandello della mia pelle dove sono atterrato... Ho rotto la clavicola e in quel momento si è spezzato anche il mio incantesimo.
Ho davvero faticato a guardare il resto del Tour Down Under, con i miei compagni che lottavano per aiutare il nostro leader Rohan Dennis, che poi avrebbe vinto. Mi sarebbe piaciuto essere con loro, invece ero a letto, a spiluccare pizze con mio cugino che mi teneva compagnia mentre attendevo di tornare a casa, a Hobart.
Ho sempre odiato chi in bici rischia senza motivo, ero riuscito ad evitare gravi infortuni, se non contiamo la frattura dei polsi dovuta ad una caduta in mountain bike. E dopo l’incidente del Down Under non sono più stato lo stesso. Ho saltato il Giro del Qatar e dopo tre settimane di lavoro a casa, con una forma assolutamente non buona, sono volato in Europa verso la metà di febbraio. Sono rimasto a casa di Calvin Watson, nel suo appartamento fuori Monaco, finché non sono riuscito a trovarne uno mio. (Suggerimento per tutti i neoprofessionisti australiani: trovate o fatevi trovare un appartamento prima di arrivare in Europa).
Il motivo per cui ho scelto di vivere nel sud della Francia era l’essere più vicino ai compagni di squadra. È stato bello essere con loro, ma tutto il resto (a parte i panorami da cartolina) non mi piaceva. Dopo pochi giorni sono andato in Germania per migliorare la mia posizione in bicicletta: probabilmente in quel momento non era la cosa più importante per me, ma è quello che la squadra mi ha chiesto di fare. Poco dopo, ho fatto il primo di molti voli Nizza-Bruxelles per la mia prima gara europea dell’anno: la Tre Giorni delle Fiandre Occidentali. Anche in perfetta forma avrei faticato, ma dopo un allenamento ridotto al minimo e tante altre cose da fare, ho passato tre giorni a sventolare in fondo al gruppo. Probabilmente non era la gara ideale per tornare dopo aver rotto la clavicola, così mi sono trovato con il morale a terra.
Dopo qualche settimana, ho finalmente avuto il mio appartamento grazie all’aiuto di David Tanner, che non conoscevo bene, ma che è stato davvero preziosissimo. E poi via di nuovo verso Bruxelles: tre gare di un giorno, tre batoste. Nell’ultima di queste, ricordo di aver pedalato su una strada secondaria fino al traguardo dopo essermi ritirato. Tempo gelido, avevo freddo, ero solo e mi sono chiesto “Cosa ci faccio qui?”.
Quella sera ho chiesto alla squadra se potevo tornare in Australia a metà stagione per qualche settimana: mi dissero di sì e mi sentii un po’ sollevato, almeno fino a quando non è arrivata la Tre giorni di La Panne.
I big della squadra stavano mettendo a punto la loro forma per le classiche. Io avevo corso al Nord con gli Under 23, ma qui eravamo su un altro livello, si parla di una gara vera. Non solo mi stavo consumando fisicamente, ma la mia fiducia era a zero. Non mi sentivo bene e soprattutto non mi sentivo più parte di quel gruppo. Sono tornato a casa dal Belgio alle 23, ho camminato fino al McDonald’s e, prima che chiudesse, mi sono sbafato un Big Mac e 20 pepite con salsa barbecue, ovviamente: per la prima volta da settimane ero felice. Ma non è durata a lungo.
Dopo nove gare consecutive in Belgio e una in Olanda sotto la pioggia, sono finalmente tornato a Nizza per alcune settimane. Per la prima volta da Natale, potevo concentrarmi sugli allenamenti. Dopo aver lavorato bene con il mio team coach Marco Pinotti, che mi aveva messo in gran forma per l’estate australiana, all’inizio di aprile mi è stato assegnato un nuovo allenatore perché Marco seguiva troppi ragazzi.
Con il morale che avevo, era l’ultima cosa di cui avevo bisogno. Ora ero allenato da qualcuno che non avevo mai incontrato, non mi piacevano gli allenamenti e nemmeno il programma di lavoro, che non era come quello di Marco.
Sono riuscito a fare un po’ di lavoro prima del Romandia, ma non ero neppure lontanamente in forma. La cronosquadre mi è piaciuta e il resto del Tour è andato meglio delle corse in Belgio, ma pioveva, faceva freddo e ho fatto ancora fatica a riprendermi.
Sono tornato al mio appartamento dopo il Romandia e quattro giorni più tardi sapevo di dover partire per andare a San Francisco e disputare il Tour of California. Per quattro giorni di seguito ho mangiato patatine e giocato alla playstation, non ho mai toccato la bici. Ho fatto i rulli una volta.
Il viaggio in California mi andava bene, c’erano i miei compagni tasmaniani Will Clarke e Nathan Earle, era bello stare con loro ed essere in un paese dove parlavano inglese ma alla fine ero sempre lì per una gara ciclistica. La corsa non è andata male, ma certo nulla di indimenticabile. Per essere onesti, non ho fatto altro che aspettare il giorno dopo il Tour per visitare Los Angeles e provare i famosi “In and Out Burgers”. Beh, sono davvero speciali.
Poi sono tornato a Nizza, e dopo una settimana di allenamento e un sacco di partite a calcio con la playstation, sono tornato in Belgio per il Giro. Ero completamente distrutto, come non ero mai stato prima. Non ho finito l’ultima tappa: sul pullman, a 50 km dal traguardo, ho detto al team manager Allan Peiper che stavo prendendo in considerazione l’idea di chiudere con il ciclismo. Era il primo della squadra con cui ne parlavo.
Pochi giorni dopo, sono tornato in Australia per tre settimane. Ho preso la mia bici due volte in quel periodo, guardavo il Tour de France nelle prime ore della notte, ero confuso e non sapevo con chi parlare. Sapevo che era la fine, ma non riuscivo ancora a convincermene. Quando sono tornato in Europa, Allan Peiper è venuto a Nizza per parlare della mia situazione. Mi ha suggerito di staccare per un mese o due e poi di fare il punto dopo di ciò. Ho accettato, ma sapevo che era finita.
Ho corso l’Arctic Tour of Norway ad agosto: bella gara in uno scenario fantastico. I professionisti gareggiano in alcuni dei posti più incredibili del mondo ma non riescono a goderseli. La loro vita è hotel-bus-gara-hotel. Io invece in Norvegia, ho provato a divertirmi e godermela.
Una settimana dopo è arrivata la mia ultima gara da professionista, la Vattenfall Cyclassic in Germania. Allan e io avevamo fissato questa come data limite per una mia decisione. Prima della gara ho parlato con Allan: gli ho detto che avevo finito. È stata il passo più difficile, ma mi ero finalmente tolto un peso, mi sentivo libero per la prima volta da mesi. Ho fatto la mia ultima gara con Gilbert e Van Avermaet, è stato bello pedalare con questi grandi nomi, ma non ho avvertito la chimica della squadra o il cameratismo che avevo avverito con la Praties o la nazionale Under 23.
Ho finito la gara e ho provato una strana sensazione di sollievo: non dovevo correre più. La squadra è stata perfetta in ogni frangente, ma anche in questa circostanza solenne e definitiva non ho sentito una sola parola da parte dei vertici dello staff. Pensavo fosse normale, ma lo sport professionistico è un business e spesso è anche spietato. Per cinque anni il ciclismo ha riempito tutta la mia vita e ora non c’era più. Nei mesi successivi sono andato in giro per l’Europa con Alex Clements e Caleb Ewan. Sono tornato in Australia nel 2016, mi sono trasferito in una casa con alcuni compagni di scuola e ho iniziato a lavorare in un negozio di articoli sportivi. Ho giocato a calcio per la prima volta in sei anni, sono andato negli Stati Uniti a maggio, in Europa a giugno e nelle Filippine a settembre. Per la prima volta da anni, sono tornato in Australia per la finale della AFL, ho vissuto con la mia famiglia e gli amici, cose che devi sacrificare se vuoi essere un ciclista professionista. Non ne valeva proprio la pena, non avrei mai potuto fare dell’Europa la mia casa, cosa che invece è obbligatoria per un corridore australiano.
Ho frequentato l’università a Melbourne nella prima metà del 2017, ma, dopo un viaggio di quattro settimane in Grecia e in Croazia, non sono tornato per il secondo semestre. Ora sto lavorando per un’azienda di Hobart e sto per tornare a Melbourne, ricomincio con l’università.
Non mi sono mai pentito della mia decisione di chiudere con il ciclismo, sono felice di essermi fermato, ma non ho mai smesso di amare questo sport. Negli ultimi tre anni mi sono sempre alzato nel cuore della notte per vedere le corse e questo non cambierà mai. Il ciclismo mi ha dato tutto ciò che ho oggi, farei tutto da capo e lo consiglio a chiunque: è uno sport che ti porta a vedere posti incredibili e a conoscere persone fantastiche. Semplicemente non faceva per me.
Mi piacerebbe intraprendere una nuova carriera nel ciclismo o comunque in ambito sportivo e - con la Stanley Street Social come punto di partenza - spero di trasformare questo nuovo sogno in realtà.
Campbell Flakemore