Argentin: «Perchè l'Uci non ha aperto un'indagine su Saiz?».

| 29/04/2007 | 00:00
Correre per dimenticare. Ma dimenticare è difficile se continuano ad aleggiare fantasmi inquietanti. E quello di Ivan Basso e della sua storia legata all'Operacion Puerto e al presunto doping ematico, aleggia insistente. A Liegi c'è come un'atmosfera sospesa alla vigilia della Liegi-Bastogne-Liegi, la classica più antica, e massacrante con le sue 12 cotes (brevi e ripidissime salite) che asciugano i muscoli e slezionano impietose. E, più che i favoriti ( il kazako Vinokourov, lo spagnolo Valverde, ultimo vincitore, gli italiani Rebellin, Cunego e Bettini, il lussemburghese Schleck), tengono banco le polemiche. Simoni contro Basso, Cunego contro Simoni, Rebellin contro gli altri. Litigi da comari. Come i polli di Renzo nei Promessi Sposi che, a testa in giù e con il forno davanti, continuano a beccarsi. Intanto il ciclismo affonda se è vero che perfino il Tour de France vede il rifiuto di alcune città come sedi di tappa. «I corridori hanno le loro responsabilità, sanno chi bara e per questo litigano - al telefono, Moreno Argentin, ex di vaglia, che di "Liegi" ne ha messe quattro in carniere non ha mezze parole - ma loro non possono essere responsabili di tutto. Sono l'ultimo anello di una catena. E sopra? E i dirigenti? Saiz (il manager arrestato nell'Operacion Puerto, ndr) era nel consiglio di amministrazione della Federazione internazionale. Possibile che non sapesse nulla di quello che accadeva nella sua squadra quando lui stesso controllava test e analisi? Risulta che l'Uci abbia aperto un qualche procedimentio a suo carico? Perchè? Fosse un corridore, l'avrebbe già massacrato. Ma adesso c'è Basso sotto tiro. E che dire dei certificati e delle esenzioni cosiddette “terapeutiche"? Cos'è un ciclismo di malati? Se sei malato stai a casa. Come non pensare che siano tutti coinvolti?». Emerge il vero dramma del ciclismo: una generazione di dirigenti che ha fallito e non ha la dignità di dimettersi. «Certo, dovrebbero. Ma chi lo fa?». da «La Repubblica» di oggi a firma Eugenio Capodacqua
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