COLBRELLI: IL MIO SOGNO IRIDATO

PROFESSIONISTI | 31/08/2017 | 07:13
Sonny era pronto a girare il mi­glior film della carriera, lui che porta il nome di uno dei protagonisti della serie tv Miami Vice. Con i colori della Bahrain Merida il bresciano, nato a De­senzano del Garda il 17 maggio 1990 e professionista dal 2012, ha debuttato nella corsa più grande al mondo. Al Tour de France il “Cobra” non ha trovato la giornata perfetta, ma ha preso le misure con le volate, le fughe e la grandeur della Boucle. Si presentava al via con cinque partecipazioni al Giro d’Italia e 17 vittorie nella massima categoria, due conquistate in questa stagione: una tappa alla Parigi-Nizza davanti a Degenkolb e Demare e la Freccia del Brabante, apertura delle classiche delle Ardenne, in cui aveva preceduto Vakoc e Benoot. È tornato a casa con la consapevolezza di dover lavorare ancora tanto, ma di avere tutte le carte in regola per giocarsi qualche tappa con il me­glio del ciclismo mondiale nel futuro prossimo.
 
Che voto ti dai?

«Penso di meritare la sufficienza. Non so­no del tutto soddisfatto della mia pre­stazione, in alcune tappe ho peccato non credendoci fino alla fine, mentre in altre ho sbagliato del tutto. L’im­por­tan­te è aver finito il Tour: ho messo in tasca un’esperienza unica. Dopo cinque Giri d’Italia, pensavo di andare in Francia e di sapere tutto, invece al Tour ogni giorno è come affrontare una classica, bisogna stare sempre davanti, non si va mai tranquilli. È una corsa molto dura, si va davvero forte. Non vedevo l’ora di essere al via, sognavo una tappa, ma ho capito che primeggiare sulle strade di Fran­cia è davvero complicato. Ci tornerò, per essere protagonista».

Ci sono state tante polemiche riguardo gli sprint. Cosa pensi dell’espulsione di Sagan?

«Si è discusso molto, ma la giuria è stata dura solo con Peter. Se fossero stati severi con tutti come hanno fatto con lui, non so quanti velocisti sarebbero arrivati a Parigi. A mio avviso era giusto penalizzarlo retrocedendolo nell’ordine d’arrivo, ma mandarlo a casa è stato esagerato. Si è scusato, ha ammesso di aver sbagliato, si è chiarito con Cavendish, lui e la corsa non meritavano la sua esclusione. Ora co­me ora Sagan è il faro del ciclismo. In volata le spallate ci sono, tutti cercano il limite, fa parte del gioco. Chi invece esagera è Nacer Bouhanni, le mani dal manubrio non si alzano in volata. Il suo comportamento è ben peggiore di quello che è costato il Tour al campione del mondo».

La tua volata più bella nelle scorse tre settimane?
«Sullo strappo di Rodez, che ha regalato la prima vittoria a Michael Mat­thews. L’ho preso dietro, all’attacco ero trentesimo e alle fine ho chiuso sesto. È senz’altro il finale in cui sono andato più forte. Se avessi preso il rettilineo d’arrivo più davanti avrei potuto centrare il podio, non il successo però perché Matthews quel giorno era imbattibile. Ci tenevo a far bene nella classifica a punti, la maglia verde è un sogno, ma nei primi giorni tra il caldo e le cattive sensazioni non sono riuscito ad ingranare. L’australiano della Sun­web l’ha meritata per la sua co­stanza di rendimento».

Cosa ti ha impressionato maggiormente?

«La grandezza dell’evento, Il Tour ri­spet­to a tutte le altre corse è tutto un altro mondo. Dalla carovana al villaggio, passando per le persone a bordo strada e la media che si tiene in corsa. Le salite non sono dure come quelle del Giro d’Italia, ma le si affronta talmente forte che diventa duro anche un cavalcavia qualunque. La corsa ro­sa è estrema per le pendenze, la Gran­de Boucle è faticosa per la velocità folle che caratterizza anche le tappe più tranquille. Il livello dei corridori in gara è mondiale, in corsa ci sono i velocisti, gli scalatori e i passisti più forti in circolazione, tutti al top della forma».

Il momento più emozionante che hai vissuto?
«L’arrivo a Parigi è stato da pelle d’oca. Me l’avevano detto, ma un conto è sentirselo raccontare, un altro viverlo in prima persona. Il tifo sugli Champs-Élysées dà davvero i brividi. Quando ci sono arrivato in gruppo ho pensato “È finita, ce l’ho fatta” ed ho provato una grande emozione. Por­ta­re a termine il primo Tour è un’esperienza preziosa per il mio futuro. Cer­ti giorni volevo mollare, ma grazie ai miei compagni e ai direttori sportivi che mi hanno sempre spronato a tenere duro ce l’ho fatta».

La giornata più difficile?

«Quando ha vinto Aru. C’era un caldo bestiale, sentivo l’asfalto che si scioglieva sotto le ruote, avvertivo brutte sensazioni, ogni volta che mi alzavo sui pedali sentivo partire i crampi. Al­la sera ho chiamato a casa e detto sconsolato: “Mi sa che ci vediamo presto”. Sono fragile di testa. Al Tour sono arrivato in buona condizione, ma ho sofferto tanto il caldo. Sono uno da nord, mi esalto quando incontriamo freddo e acqua, nella corse di un giorno se le temperature sono alte resisto abbastanza bene, ma pedalare tutti i giorni con 35-40° mi mandava il corpo in ebollizione. Negli arrivi più adatti a me ho sbagliato, mi sono fatto sorprendere mentre ero troppo indietro. In più anche i miei compagni han­no avuto giornate sì e giornate no, co­me tutti nel corso di tre settimane. Tut­ta la fatica accumulata però, sono certo che ci servirà a crescere e mi­gliorare».

Cosa non scorderai della tua prima Gran­de Boucle?
«I bambini a bordo strada sotto l’acqua a catinelle di Düsseldorf, in  maniche e braghe corte che tifavano per tutti. Il pubblico in strada è davvero qualcosa di impressionate, ogni giorno non c’è uno spazio libero su tutti i 200 km di gara. In Germania abbiamo incontrato un tempo da lupi, ma vedere i bambini che ci incitavano, scovare nei loro occhi l’entusiasmo e l’am­mirazione nei nostri confronti mi ha dato la carica. Nei tapponi in salita c’era davvero una folla impressionante, accade anche al Giro d’Italia ma la passione dei francesi per il ciclismo e questo evento è indescrivibile».

In più di una tappa sono venuti a trovarti i tuoi familiari. Quanto è importante il loro sostegno?

«Fondamentale. Per dove sono arrivato, devo dire grazie ai miei genitori Fio­re e Federico, entrambi operai, e a mio fratello Tomas che è del ’96, era un promessa del calcio, ma al pallone ha preferito gli studi di ingegneria. A trasmettermi la passione per lo sport è stato il nonno materno Cesarino, che da qualche anno purtroppo non è più tra noi. Tutti i giorni mi veniva a prendere all’uscita da scuola per portarmi agli allenamenti in pista a Dalmine. Se non ci fosse stato lui con il suo aiuto pratico, non so se avrei continuato a lungo ad andare in bicicletta. È cominciato tutto con una corsa nel mio pae­se, in mtb. Corro su strada da quando ero G4. La mia prima bici era una Alan rossa e gialla, il primo piazzamento che ho raccolto è stato un secondo posto. All’epoca nessuno pensava che avrei fatto il corridore, ero soltanto un bambino cicciottello. Dei Tour de France di quando ero piccolo ho un unico ricordo: Lance Armstrong, vinceva sempre lui».

Il tuo fans club si fa sempre riconoscere.
«Sì, ormai si è formato un gruppo affiatato e casinista (sorride, ndr). La maggior parte dei miei tifosi arriva da Ca­sto, il mio paese, sulle montagne bre­sciane. Alla Milano-Sanremo erano in settanta, ai Campionati Italiani cinquanta. Sono superorganizzati, anche quando sono in dieci hanno due bandiere a testa così sembrano il doppio. E poi magliette, cappellini, tutto. Al Tour sono venuti in sedici, ma sembravano molti di più. Anche perché si portano dietro salami, pane, affettati vari, così si sono “comprati” i tifosi degli altri. Adelina, con cui da tre anni vivo a Salò, è la capo ultrà che organizza le trasferte. Quando affronti una grande corsa di tre settimane avere vicino i tuoi cari, ti dà tranquillità e morale fondamentali per dare il massimo».

Cosa ti ha detto questo primo Tour in pro­spettiva futura?

«Mi ha dato la conferma che posso competere con i corridori migliori al mondo. Dovrò perfezionare un po’ di cose nella preparazione, lavorare di più sulla resistenza per mantenere medie alte per tanto tempo, im­parare a restare concentrato dal primo all’ultimo chilometro e a correre davanti. Se nelle altre gare è sufficiente farsi trovare tra i primi negli ultimi 20 chilometri, qui devi essere sull’attenti a partire dagli ultimi 50-60 chilometri. In un attimo, se ti distrai, dalla testa ti ritrovi in coda al gruppo, se fanno un ventaglio in un amen devi dire ciao a tutti e ai tuoi sogni di gloria».

Qual è ora il tuo programma?
«Dopo Am­bur­go e Plouay, parteciperò alle corse WorldTour in Canada. Dal Tour non sono uscito “finito”, ho la condizione giusta, devo solo mantenerla: voglio pre­parare al meglio il mondiale. Si cor­re il 24 settembre in Norvegia, il per­corso è adatto alle mie caratteristiche».

L’ambizione di fine stagione ha i colori dell’iride.

«Da ora in poi il Campionato del mon­do è il mio chiodo fisso. Voglio far bene con la maglia della squadra, con cui sono felice di aver rinnovato. Alla Bahrain Merida mi sono subito trovato bene, sono orgoglioso che mi abbiano voluto confermare. Essere nel team di Nibali è il massimo. Al Campionato Italiano un campione come lui si è mes­so al mio servizio, assurdo averlo co­me gregario, un vero lusso. Durante la corsa tricolore a un certo punto è ve­nuto a chiedermi: cosa facciamo? Devo dire che mi ha trovato impreparato, non sapevo cosa rispondergli. E all’ultimo giro ero rimasto senz’acqua, e lui mi ha dato la sua. Ci sono grandi campioni così, che danno tanto alle persone che hanno vicino. Me ne sono reso conto la prima volta che abbiamo corso insieme, ai Mondiali di Ponferrada: io ero un debuttante, Vincenzo si mise a mia disposizione. Lì ho capito che persona è. Conclusi gli appuntamenti con il club, voglio farmi trovare al cento per cento per vestire la maglia azzurra. Il percorso di Bergen mi si addice e mi fa venir voglia di sognare».

Giulia De Maio, da tuttoBICI di agosto
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