STORIA | 10/08/2017 | 08:03 Esplorava. Una delle sue mete preferite era il Lago Scaffaiolo: sentieri, prati, boschi, crinali sull’Appennino tosco-emiliano. Sfidava. Incuriosito dalla natura del vulcano, decise di spingersi fino in Sicilia e salire sull’Etna, e lo fece, fra cenere e lava. Si allenava. Da casa, a Limestre, vicino a San Marcello Pistoiese, fino a Firenze, 130 chilometri tra andata e ritorno, con le salite delle Piastre e dell’Oppio nel finale, capace di farli anche tutti i giorni. E girava. Un giorno uscì di casa come se stesse andando dal tabaccaio, e cominciò il suo Giro d’Italia: da Limestre a Viareggio, La Spezia, Genova, Alessandria, Torino, Aosta, Bergamo, Milano, Lecco, Pordoi, Bolzano, Belluno, Padova, Rimini… E il bello è che aveva già 77 anni e cavalcava una bici da 15 chili.
Armando Manzani (1877-1961) è il pioniere della mountain bike. Ci andava ancora prima che la bici da fuoristrada venisse inventata. La sua non aveva marca, ma nome, Wilma, e a battezzarla ci aveva pensato lui, con un nome femminile, perché la bici – si sa – è una compagna. Lei: telaio da passeggio, al massimo da gita, freni a bacchetta, ruote pesanti, parafango posteriore, fanalini davanti e dietro. Lui: abbigliamento da escursionista, scarpe da montanaro, zainetto da viaggiatore. Poi gambe e fiato, occhi e cuore, curiosità e avventura. Pronti, via.
Si parlava di Manzani l’altro giorno, all’Osservatorio astronomico di Gavinana, nel Parco delle stelle, per il festival Letterappenninica. Manzani, che era stato uno dei primi italiani a conquistare la patente per l’auto, che aveva scorrazzato in lungo e in largo con la moto (e si racconta di come, proprio sulle Piastre, nel frastuono del motore e nei sobbalzi dello sterrato avesse perso la moglie per strada), e che poi si era innamorato della bici, anzi, di Wilma. Manzani, che sosteneva che la vita è compiere un viaggio, e che il viaggio è scavalcare le montagne. Manzani, che si vestiva a cipolla, che indossava maglie con i buchi, che chiedeva ospitalità a parrocchie, che sembrava un pellegrino, che accettava le elemosine, che quando Wilma non ce la faceva più lui se la caricava sulle spalle, che per guadagnarsi qualche soldo strada facendo suonava la fisarmonica.
Manzani era magro e forte, la resistenza era la sua specialità, e resistente era anche la sua generosità, si narra di quella volta – negli anni Quaranta – quando un medico rimase a piedi perché i tedeschi gli avevano confiscato l’auto, lui lo caricò in canna e lo portò fino a Montecatini. Era vegetariano: la nipote Giuliana, ora ultraottantenne, ma allora una bimbetta di 10-12 anni, nascondeva un pacchetto pieno delle ossa di pollo in un cassetto della scrivania, poi si nascondeva sotto il letto finché il nonno Armando scopriva l’orrore, gridava “brutta birbona” e gettava le ossa nell’orto. Era anche ecologista: sempre Giuliana racconta di come il nonno sconsigliasse l’uso del sapone e di altri detersivi e suggerisse quello di liscivia e cenere, “altrimenti prima o poi finiamo avvelenati”.
Manzani riuscì a dribblare sia la Prima sia la Seconda guerra mondiale, e riuscì anche a evitare le battaglie del lavoro: si era lanciato in una fabbrichetta di spilli, ma pagato il fallimento con un anno di galera, scelse definitivamente la libertà purché a due ruote. E quando la moglie Albina, impiegata alle Poste, gli chiedeva aiuto per sbrigare le pratiche alla fine del mese, lui prudentemente spariva da casa il 26 e tornava il 10, sempre con la sua Wilma, su e giù per colline e monti, costeggiando i laghi, arrivando al mare, visitando le città, misurando – a pedali - l’Italia.
Manzani vive ancora, ma solo a ricordi e parole. Invece Wilma, parcheggiata in una cantina, forse aspetta altre avventure.
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