PROFESSIONISTI | 21/07/2017 | 07:18 Avete presente Bettini? No, non Paolo, quello che ha vinto due Mondiali, le Olimpiadi, eccetera. Bettini il fotografo. No, mica Roberto, che cominciò nel ‘74 con una foto di Beppe Saronni della Buscatese primo a una gara di dilettanti nel parco di Monza. No, sto parlando di Luca Bettini, che si è fatto tutte le tappe di questo Tour de France in moto per farci vedere da vicino quanto è dura la fatica, quanto può essere cattivo uno sprint, quanto è dolorosa una salita, in quanti modi diversi si può piangere e ridere. Il ciclismo in uno scatto, il suo. Luca è uno dei due figli di Roberto - l’altro è Thomas, che fa il cuoco al bagno Susanna di Marina di Ravenna con mamma Paola, e gestisce l’altra attività di famiglia - e tutti sono soltanto omonimi dell’altro Bettini, quello che correva e vinceva. «Ogni tanto qualcuno mi telefona: ciao Paolo come stai? E io a spiegargli che sono l’altro Bettini. Capita, viviamo nello stesso mondo, siamo nelle rubriche delle stesse persone».
Luca è nato a Magenta un giorno di marzo di trent’anni fa, «papà molto spesso non c’era quando compivo gli anni, quello è periodo di corse, però una volta mi portava l’autografo di Chiappucci, un’altra volta mi passava Bugno al telefono, il ciclismo è entrato così nella mia vita, senza che me ne accorgessi». Come la fotografia. «Da quando mi ricordo ho sempre voluto fare questo mestiere. Hai presente il classico tema delle elementari, quando la maestra ti chiede di scrivere cosa vorresti fare da grande? Io scrissi fotografo. Ed eccomi qui».
Non è così semplice, non è un mestiere che si può ereditare. C’è voluto lo studio. «Alle superiori, a Milano, ho fatto una scuola professionale con indirizzo fotografico, ma non era il periodo giusto: eravamo nel momento del passaggio da pellicola a digitale, e io per cinque anni ho fatto pratica di qualcosa che ormai era già sorpassato. C’era anche l’università ma ho preferito andare subito sul campo». Oltre allo studio, c’era papà. «Non mi ha mai detto niente, in un senso o nell’altro. Fai quello che vuoi fare, è l’unica cosa che ha detto sempre a me e a mio fratello. Però quando ha visto che volevo seguire le sue orme ha cominciato a portarmi a qualche corsa. Mi lasciava in un punto con la macchina fotografica e mi diceva: ci vediamo all’arrivo. Poi a casa guardava che cosa avevo fatto e mi diceva cosa c’era di buono e cosa non andava. Una delle prime fu una Liegi, credo nel 2001: mi lasciò sulla Redoute. La prima in assoluto fu una Coppi e Bartali, ma dovrei controllare: a casa ho tutti i pass di tutte le corse. La prima volta in moto non si dimentica: un trofeo Beghelli, nel 2006».
La moto è anche il ricordo della paura più grande. «Era sempre la Liegi, tre anni fa. Non so ancora come abbiamo fatto a fare quell’incidente. Pensa: ci capita di andare a novanta all’ora in discesa dietro al gruppo, e invece il peggio ci è successo davanti a una fuga, in un tratto di trasferimento a 50 orari, contro una macchina di invitati». Il pilota fiammingo di Luca, Koen Hadens, se l’è vista brutta. «I dottori dicono che non si spiegano come abbia fatto a recuperare così bene». Luca non si è fatto neanche un graffio. «Quello che era sulla moto dietro di noi mi ha raccontato che sono volato sopra il van. Io mi ricordo soltanto la frenata e una sensazione tipo lavatrice. Prima era tutto nero, poi ho visto che ero tutto intero. Ma Koen no». Il problema è stato che subito dietro c’era la fuga, poi a distanza il gruppo, e l’ambulanza era in fondo, «è arrivato prima l’elicottero». Per fortuna i miracoli ogni tanto succedono, «Koen è tornato anche a guidare, ma non in corsa, io all’inizio avevo paura anche in macchina, cercavo continuamente il freno col piede, poi me ne sono fatto una ragione, non dimentico ma sono diventato fatalista».
Assieme a suo padre, a Ilario Biondi e agli altri del team, Luca fotografa il ciclismo per la Gazzetta dello Sport, per tuttoBICI e tuttobiciweb e per altre testate straniere. «Questo è il mio decimo Tour, i primi due a metà, gli altri tutti interi. Ho fatto undici volte le classiche, undici volte il Giro, insomma undici di tutto». Anche Giulia, che Luca ha sposato due anni fa prima del Giro d’Italia, si è appassionata alle corse, «guarda le tappe in tivù sperando di vedermi». Luca prima nuotava, «facevo stile, 50 e 100, ho fatto agonistica per dodici anni ma non ero un campione». Ogni tanto va a correre, anche al Tour, «ci vorrebbe una piscina, ma come si fa?, l’anno scorso ho dormito 125 notti fuori casa, conto le notti perché le corse sono di più, qualche volta quando sono vicine riesco a tornare a casa la sera».
Chi scrive di sport qualche volta è un po’ geloso del lavoro dei fotografi, perché loro sono molto amati dai corridori... «Penso di avere un buon rapporto con tutti in gruppo, la cosa bella è che ci vediamo in giro per il mondo da gennaio a dicembre, ci conosciamo tutti. Un rapporto speciale ce l’ho con Manuele Boaro perché siamo... gemelli, siamo nati lo stesso giorno mese e anno, e di solito ci sfottiamo un po’. Con Bennati, con Nibali, anche con Sagan». Lui veramente li chiama Daniele, Vincenzo, Peter, ve l’ho detto che con i fotografi i corridori hanno un legame privilegiato. «A Fabio ho fatto le prime foto quando è passato all’Astana, figurati». Difficile scegliere la foto più importante, «sono stato molto felice di andare all’Olimpiade di Rio, per un fotografo è un traguardo serio», più facile ricordarsi la più bella, «il primo Giro di Nibali è stato il primo che ho seguito tutto in moto, perché papà era stato male, penso alle foto di Vincenzo sulle Tre Cime di Lavaredo, con la neve». Anche i fotografi hanno le loro passioni, «il Fiandre, soprattutto qualche anno fa, adesso è diventato un po’ più commerciale, con i tendoni, i vip che mangiano, ma un momento che non dimentico è la prima volta che sono arrivato sul Muur, con tutta quella gente, sembrava uno stadio, mi viene ancora la pelle d’oca. Anche la Roubaix è bellissima, unica, però manca la salita».
Al Tour la salita non manca. Ma quando sei in moto in mezzo al gruppo sai esattamente cosa sta succedendo? «Sì e no. Diciamo che capisco tutto quando sono all’arrivo con la radio. Quando sono in moto non ho sempre il tempo di afferrare tutto, ci sono talmente cose che vuoi fare, scattare, fermare che spesso non riesci ad avere il quadro generale. A Peyragudes ero al traguardo e ho visto arrivare su Bardet, poi Fabio, e Froome non c’era, lì ho capito. Ero sotto il podio quando Fabio si è messo la maglia gialla sopra quella di campione italiano, e sono stato fiero. Non c’è niente da fare, con i francesi c’è sempre questa rivalità. E’ bello poter andare in giro con la schiena dritta, la testa alta».
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