di Nicolò Vallone
Di Filippo Conca si è scritto e detto tanto, abbiamo scritto e detto tanto, dopo la sua clamorosa vittoria ai campionati italiani. O meglio: si è scritto e detto tanto su significati del suo titolo nazionale e massimi sistemi (e problemi) del ciclismo italiano. Giustamente, per carità, date le doverose e valide riflessioni a cui quella domenica di fine giugno ci ha indotto. Forse, però, realmente di Filippo Conca, sia del ciclista che dell’uomo, si è parlato poco. Per questo abbiamo deciso di telefonargli lunedì 25 agosto, a dieci giorni dal suo nuovo debutto nel World Tour con una bellissima maglia tricolore: siamo stati accolti da disponibilità e personalità. Tre quarti d’ora di conversazione, all’interno di una giornata “simbolica” del vivace momento che sta passando. Al mattino, infatti, il classe ’98 di Bellano era stato al quartier generale dello Swatt Club, nella Brianza lecchese, per scambiare quattro chiacchiere col presidente Carlo Beretta, colui che gli ha teso la mano nel momento dello sconforto; di pomeriggio, invece, si stava recando al reparto corse varesotto della Jayco AlUla, la struttura che gli ha riaperto le porte del professionismo. Metà dell’intervista l’avete già potuta ascoltare nella puntata numero 285 del podcast BlaBlaBike e potete rileggerla condensata qui di seguito; la seconda metà, un inedito ritratto del vissuto di Filippo Conca, ve la proponiamo ora.
Filippo, raccontaci il tuo Ferragosto al Circuito Franco-Belga.
«Ammetto che, prima del debutto, non avevo pensato così intensamente al ritorno in gruppo con la maglia tricolore. Ma quando il giorno è arrivato ho sentito una forte emozione, ho cercato di onorarla al meglio stando nelle prime posizioni e mettendomi a disposizione dei compagni quando mi sono reso conto di non avere la gamba per fare risultato».
Ti aspettavi un contratto così immediato?
«In effetti... sì, e ho preferito cogliere l’occasione di trasferirmi subito così da cominciare la prossima stagione con un rodaggio alle spalle. Già pochi giorni dopo gli italiani la Jayco AlUla si è interessata a me, anche se si è riservata di prendere una decisione definitiva a fine Tour de France. Loro hanno mantenuto la parola e io a mia volta li avevo tenuti come prima scelta nonostante qualche altro team si fosse interessato: nell’ambiente me ne hanno parlato bene, sono una bella squadra e oltretutto sempre più italiana».
Lo stesso team manager, del resto, possiamo definirlo “italiano d’adozione”.
«Brent Copeland mi ha dato l’impressione di aver pienamento compreso che una buona squadra è come una buona azienda: per funzionare al 100% le persone devono trovarcisi bene e trovarvi un lato umano oltre che lavorativo».
Facciamo un passettino indietro: l’avvicinamento a quei fatidici campionati italiani non è stato solo rose e fiori...
«Nella mia prima gara gravel del 2025, la Santa Vall in Catalogna, sono caduto a trecento metri dal traguardo e mi si è aperto il ginocchio sinistro: si vedeva l’osso e i legamenti alari della rotula erano lesionati, per fortuna non mi sono dovuto operare e sono state sufficienti due settimane di fisioterapia e altrettante di riposo. Ho ripreso a fine marzo, ho ottenuto bei piazzamenti in gare gravel tostissime (come il quinto posto alla The Hills in Veneto) e la condizione migliorava a vista d’occhio, finché nel ritiro di Livigno a maggio ho centrato una marmotta in discesa: botta in faccia, mal di testa lancinante ma nulla di rotto. Sono stato lontano dalla bici per una settimana, sono rientrato al Giro dell’Alta Austria e ho completato la preparazione».
Appunto, la preparazione: incidenti a parte, come si è svolta?
«Rispetto ai miei compagni, non ho effettuato heat training sui rulli. Mi sono comunque allenato al caldo, perché sapevo che tanti avversari più forti di me che avrei affrontato a Gorizia sarebbero stati reduci da gare estere con temperature non così elevate, dunque non sarebbero riusciti a esprimersi al massimo sotto la canicola: per trasformare ciò in un fattore a mio vantaggio uscivo alle 10:30-11, cinque ore a 35-36 gradi medi... A livello di allenamenti in sé: tanta soglia fino a due settimane prima dell’appuntamento tricolore, dopodiché ho fatto parecchio dietro-moto e dietro-macchina. Nel frattempo ho “curato” un mio punto debole, fondamentale sul percorso friulano. A dispetto della mia fisionomia, infatti, mi trovo meglio su salite da dieci minuti anziché sugli sforzi brevi: tuttavia, dato che la salita del Collio richiedeva massimali da due-tre minuti, ho lavorato con successo sull’esplosività».
In Jayco AlUla la tua preparazione cambia?
«Per ora no: fino a fine stagione sarò seguito ancora da Luca Vergallito. Inizierò a lavorare col preparatore interno alla squadra, Fabio Baronti, dalla prossima stagione».
Per quali corse ti stai preparando?
«Dopo il GP Plouay del 31 agosto, il 7 settembre intraprenderò il calendario italiano a Larciano. Il 10 e l’11 Toscana e Peccioli, parentesi a tappe in Slovacchia a metà mese, e a ottobre un po’ di nostre classiche. Chiaramente spero nel Lombardia, ma prima c’è il Trittico: la squadra ha deciso di concentrarsi su Bernocchi e Tre Valli, rinunciando stavolta alla mia “corsa del cuore” che è l’Agostoni».
La Coppa Agostoni, non a caso detta Giro delle Brianze, è la tua gara di casa...
«Sì, ma c’è dell’altro. La scorsa edizione è stata oltremodo significativa per me: ormai sapevo di non avere un contratto e due Professional che si erano interessate a me si stavano tirando indietro, corsi con una rabbia speciale e mi piazzai nono. In un momento così negativo, avevo sfoderato una gran prestazione e la settimana successiva mi contattò Beretta: se a dicembre non avessi trovato una formazione professionistica o Continental, avrei avuto un posto da loro. Così è stato e sarò grato a vita a lui e all’intera Swatt».
A quasi un anno dal momento più complicato della carriera, come sono cambiate le tue consapevolezze come corridore?
«A dire il vero, sono le stesse. Perché io sono lo stesso Filippo Conca. In molti si aspettano molto da me adesso, e io naturalmente sogno di partecipare al Giro d’Italia e persino vincere una tappa, ma sono una persona oggettiva e so di non essere né un fenomeno né il salvatore del ciclismo italiano. Semplicemente sono un ciclista con “diritto di cittadinanza” nel professionismo, uno a cui piace fare il gregario e che talora (vedi quinto posto di tappa alla Vuelta nel 2022, l’ottavo agli italiani di Comano Terme nel 2023 o la già citata Agostoni 2024) può prendersi le sue chance personali».
Andiamo alle tue origini: come nasce l’amore per la bicicletta?
«Mio papà Sergio è super appassionato: quando mise in bici da Allieva mia sorella maggiore Sabrina e io avevo 7 anni, provai e mi piacque un sacco.»
Fin dove si è spinta Sabrina?
«Ha partecipato al Giro d’Italia femminile nel 2008, era talentuosa ma ha lasciato per concentrarsi su studi e lavoro. Chissà come sarebbe andata se avesse fatto ciclismo oggi, coi progressi del movimento donne anche in termini di professionismo».
Com’è stata la tua trafila giovanile?
«Cominciai da G1 nella Costamasnaga, da G4 mi presi una “pausa” e giocai a calcio nella squadra del mio paese (Bellano, sponda est del lago di Como) poi tornai al ciclismo e completai i Giovanissimi in mountain bike e ciclocross col team Oliveto. Col passaggio di categoria mi rituffai sulla strada, alternando numerose società lombarde: Sovico, Senaghese, Biassono, Massì Supermercati».
La multidisciplina non l’hai più sperimentata?
«Qualche sporadica gara di ciclocross nel mio quadriennio Under 23 tra Palazzago e Biesse Arvedi, giusto per tenermi in forma in inverno».
Quali vittorie giovanili ricordi con particolare affetto?
«Premesso che a quell’età contano relativamente, ho vinto una classica come la Sesto-Inverigo per Esordienti e la classifica generale del Giro della Provincia di Monza e Brianza per Allievi. Da U23 ho conquistato il Giro del Valdarno nel 2019 e la Warm Up Ciclismo 2020 nell’autodromo di Imola: al rientro dal lockdown, la mia ultima vittoria prima di quest’anno».
Proprio alla Sesto-Inverigo risale la foto che abbiamo riportato sul profilo Instagram di Tuttobiciweb a poche ore dal il tuo trionfo tricolore: gli “occhi della tigre”.
«Un gesto che nacque in quel 2012, quando ero 2° anno. Un ex ragazzo di mia sorella mi accompagnava spesso alle gare e mi motivava con la canzone Eye of the tiger, colonna sonora di Rocky III: per scherzo lui mi disse di fare quell’esultanza, io lo presi alla lettera e appena ne ebbi occasione la feci. All’epoca avevo più occasioni per “sfoggiarla” perché 5-6 vittorie a stagione le portavo a casa. Da Juniores in avanti l’ho potuto fare sempre meno, ma le rare volte che vinco lo replico. Quel ragazzo risponde al nome di Michele Musolino, oggi è uno psicologo e tuttora mio grande amico. C’era a Gorizia, nel giorno del tricolore».
Eye of the tiger è rimasta la “tua” canzone?
«La “mia canzone” è Live forever: un brano agli albori degli Oasis, il mio gruppo preferito. Non sono riuscito ad andare alla loro reunion, col fitto calendario ciclistico non è semplice, ma da separati li ho ascoltati dal vivo nel 2023 a Milano: a luglio Liam Gallagher e a novembre suo fratello Noel».
Chi sono state le persone più importanti nel tuo percorso?
«Menziono nuovamente mio padre: fin da principio mi ha insegnato a non mollare mai. Le difficoltà non sono mancate, è normale per chi pratica il nostro sport: infortuni, sconfitte, malanni... lui mi ha sempre detto che col tempo mi sarebbe tornato indietro tutto. Un insegnamento che mi ha accompagnato durante il periodo senza squadra e a cui ho pensato intensamente durante il campionato italiano. Non è uno che esterna le emozioni, ma è stato senz’altro l’uomo più felice per il mio successo. Inoltre cito uno dei miei migliori amici, Lorenzo Bassanelli: tra i pochi a crederci davvero».
Dalla crescita ciclistica a quella personale: che scuole hai fatto?
«Alle superiori ho studiato Ragioneria ed è stata la scelta più azzeccata possibile: adoro le materie economico-giuridiche e i docenti di quelle materie mi hanno fornito ottime basi, che mi aiutano a capire maggiormente l’attualità e vari ambiti del quotidiano. Oltre ad avermi permesso di laurearmi in Economia stando nei tempi».
Come hai conciliato università e ciclismo?
«Appena diplomato m’iscrissi in Bicocca a Milano, tuttavia mi resi conto presto che con l’attività ciclistica non era fattibile frequentare come richiesto. Smisi per un paio d’anni e, poco prima della pandemia, m’iscrissi alla eCampus: grazie alle lezioni telematiche e ben sei sessioni d’esame all’anno (in parte dati on-line e in parte di persona, nella sede di Novedrate a un’oretta da casa mia) sono riuscito a finire gli esami nei mesi finali in Lotto e laurearmi a inizio 2023. Dovetti giusto rinviare a marzo, perché a gennaio ero in ritiro con la Q36.5».
Tesi legata al ciclismo?
«No, sulle crisi economiche. Non sono così fissato sul ciclismo, può sembrar strano ma lo seguo poco».
Quali discipline preferisci da spettatore?
«Ce ne sono diverse, tra cui atletica e sport invernali. Conosco abbastanza bene atleti olimpici azzurri come Davide Ghiotto, record del mondo sui 10 km di pattinaggio su ghiaccio, e il canottiere delle mie zone Andrea Panizza, argento nel quattro di coppia a Parigi 2024. Mi è capitato di pedalare insieme alla Nazionale di pattinaggio a Livigno e insieme a Panizza qua sul Lario».
Quando sei rimasto “disoccupato” ti sei messo all’opera per un piano B extra-ciclistico?
«Certo, ho comprato un appartamento in centro a Lecco e l’ho adibito per affitti turistici. In più a maggio ho preso la patente nautica, perché mi piacerebbe aprire un noleggio di bici e barche per tour sul lago, in società con amici del settore».
E ora che il ciclismo è di nuovo la tua professione?
«L’appartamento penso che lo metterò in affitto “fisso” perché ho molto meno tempo per gestirlo, mentre il noleggio bici-barche con gli amici... lo rinviamo al post carriera!»