Il mondiale?
Evviva il fascino della prova unica
di Gian Paolo Ormezzano
Come già nell’ultimo numero, ammollo ancora considerazioni personali, sperando che non si tratti di fatto arteriosclerotico e che comunque una lunga esperienza possa produrre un atomo di interesse per il lettore. Per esempio, mi accorgo che ho passato ormai quarant’anni a scrivere del campionato mondiale di ciclismo su strada come di una lotteria, ora benedetta ora maledetta, e implicitamente a criticare la prova unica, che per il giovane giornalista era soprattutto, alla fine degli anni cinquanta (quando cominciai ad andare dietro ai ciclisti, ignaro di un futuro che mi avrebbe portato, con le seduzioni della teletrasmissione, a precederli in sala-stampa), la gara assurda che Fausto Coppi aveva potuto vincere una volta sola.
In realtà la prova unica è bella, è drammatica nella sua ingiustizia possibile, è affascinante nella sua giustizia probabile. Sostituirla con una classifica a tavolino, come molti hanno chiesto e continuano a chiedere, sarebbe un crimine, perché si consegnerebbe il ciclismo ai calcoli, che talora possono consistere nella scelta del centesimo posto, a patto che chi mi sta subito dietro nella classifica a punti arrivi centunesimo.
La storia del grande sport è fatta di prove uniche, anche e specialmente olimpiche. Prove uniche mancate, magari, da chi era atteso dal pronostico. Pazienza, amen.
Si parla di un azzurro per la gara iridata di ottobre a Verona. Prova unica, e il secondo posto non conta. Anzi, spesso secondo è peggio che ultimo, come ha spiegato sulla sua pelle Bitossi nel 1972 di Basso. Prova unica, circuito senza grandi difficoltà, e con la solita manfrina di quelli che ti dicono che il tracciato è difficile, con un’operazione di matematica che nel ciclismo viene accettata anche se dovrebbe far ridere. Si proclama infatti che un dislivello di, mettiamo, cento metri al giro fa, per venti giri, duemila metri, e allora si dice che è come se partendo dal livello del mare si scalasse una grande montagna. Tutti fanno sì sì, dimenticando il dettaglio che dopo ogni scalata di cento metri ci si riposa dall’ascesa, scendendo a valle (si fa per dire...) e magari pedalicchiando in pianura. Perché se valesse il ragionamento di piccole fatiche collegabili una all’altra a fare una fatica grande, il bambino di pochi mesi che sgambetta furiosamente nella culla scalerebbe il suo Stelvio ogni giorno.
Si parla di Casagrande, Tafi e Rebellin e si mettono le mani avanti, a dire: comunque la prova unica è una lotteria, eccetera eccetera, e dunque non ci si aspetti troppo.
Ennò, noi ci aspettiamo che un italiano vinca. A noi andrebbe bene un azzurro primo a sorpresa, in volata.
Ma poi la drammaticità, in questo caso travestita da imprescindibilità, o oggi o forse mai, è una spezia dello sport, gli dà un gusto particolare, irrinunciabile. Sai che quel giorno lì devi andare forte come non mai, se vuoi vincere quella prova lì. Sai che in cento sono come te di fronte all’ineluttabilità dell’impresa da compiere. Sai che il piazzamento non conta niente, anzi è una fregatura.
Di sport programmato, di primati annunciati siamo satolli. Per un giorno possiamo nutrirci del mistero dell’attesa, come lo chiamo Bruno Raschi stufo di avere letto forse scritto tante volte di palpitante incertezza.
h h h h
Mi manca eccome Alfredo Martini, nel senso che quando era citì lo vedevo di più, lo sentivo di più, lo avvertivo immanente e spesso imminente. È una delle poche persone dello sport che mi onora di un affetto, e ricambiatissimo (sul suo piano soltanto Giampiero Boniperti, che però è juventino). Per fortuna che quando mi vedo, mi sento con Alfredo scatta sempre il rito magico di un’amicizia: io devo raccontare una barzelletta a lui, lui deve raccontarla a me, quale che sia il porco mondo che ci circonda. A colpi di barzellette siamo forti, potenti, probabilmente immortali.
Qui voglio però dire che mi manca particolarmente, di questi temi pre-iridati, il Martini che ogni anno, parlando del circuito iridato che attendeva i suoi professionisti, diceva che il percorso era duretto. Lo diceva con gli occhi che gli ridevano, come di un bambino quando recita la bugia. Sapete, quello zampellotto ripetuto... E la discesa, sapete, è dura anche quella, nel senso che è impegnativa... La pianura poi è come se non ci fosse...
Grande Alfredo azzurro, attore degli attori, re della necessaria recitazione, sublime stemperatore del prima e anche del dopo. Grande Alfredo che comunque mi è sempre servito per ingrandire ulteriormente quell’altro, quello che abbraccio poche volte all’anno ed è sempre come se neanche un atomo di tempo fosse passato dall’ultima volta.
Gian Paolo Ormezzano, torinese, editorialista de “La Stampa”
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