Doping, un’estate per ripensarci
di Gian Paolo Porreca
Guai a noi, ci autoflagelliamo, se ci mettiamo a parlare di Willy Vannitsen, quel velocista belga scoperto da un Coppi a fine carriera , ultimi anni ’50, e scomparso nei giorni scorsi. Rigorosamente vietato parlare del suo Giro di Lombardia ’59 perduto con Van Looy e di una maglia rosa alla prima tappa del Giro ’58, tenuta Ghigi, durata l’espace d’un matin come la sua carriera...
Guai a noi, noi devoti degli anni struggenti, se giriamo o raggiriamo, intorno ai nostri problemi, ciclisticamente intesi, in questo abituale agosto popolato da Ferrari e calciostrapagato. Già, siamo alle solite litanie di doping, nel nostro ed in altri sport. Ma a fronte dei casi dichiarati o almeno suggestivi di doping pesante, Epo e nandrolone, fra Barbi e la Yegorova, Longo e Saidi-Sief, e la vergogna tutta italiana di un calcio che si cala le braghe di fronte a Davids e C. e consente loro di giocare in partite “senza arbitri” per buggerare ogni criterio di residua onestà - ma perché mai, cari direttori responsabili di quotidiani e/o di lettori sportivi? -, a fronte di questo reale doping, eccovi l’elenco di un bel numero di ciclisti sorpresi con farmaci, sanitari e via dicendo, nel blitz di Sanremo.
Eccovi, in bella vista sui giornali, pronti alla gogna, una quarantina di atleti, da Andriotto a Villa, da Brignoli a Varriale, da Savoldelli a Quaranta, ed un discreto stuolo di medici di squadra e preparatori e massaggiatori o factotum di vario spessore.
Bene, ferma restando la vergogna e l’auspicio di punizioni esemplari fino alla radiazione per ciclisti e tesserati che siano stati trovati in possesso di sostanze vietate o per quei medici che hanno semmai peccato in prescrizioni scorrette ed immorali, e che hanno infangato ancor più nei modi squallidi una professione di per sé già pubblicamente ad alto rischio in tanti settori della vita civile, crediamo sia necessario una volta ancora ribadire un punto fermo. Non è assolutamente onesto, da oggi e per sempre, definire per concetto “dopato” un atleta solo perché in possesso di un “farmaco”! Questa semplificazione non è più accettabile, perché non consona nè alla realtà delle cose, nè ad una serena visione della vita. E di un siffatto criterio di equilibrio siamo certi che il Procuratore di Firenze Bocciolini ed i validissimi ufficiali dei Nas toscani, ai quali abbiamo da sempre tributato il nostro incondizionato plauso, si faranno vessilliferi.
«Dottore, ma è possibile che io, ciclista che corro un Giro d’Italia, che faccio tappe di montagne e cronometro, sotto la pioggia e sotto il sole, indifferentemente per tre settimane, non ho il diritto di curarmi, come una persona normale?». «Ma è possibile che un individuo qualsiasi che fa sport, o che si trova in uno stato di sovraffaticamento psicofisico, diciamo pure un convalescente o un ragazzo che si prepara agli esami di maturità, possa utilizzare tranquillamente polivitaminici, estratti epatici, disintossicanti, e che a noi semmai questo ci venga proibito o ancor peggio interpretato come pratica vietata?».
«Dottore, ci pensate che io sto in quell’elenco, solo perché avevo delle fiale di Prefolic e Tationil, sostanze ricostituenti normalissime, e le ‘farfalline’, gli aghetti per le iniezioni endovenose necessarie per la loro somministrazione?». No, non è questo, il doping! Il “doping” è l’Hemassist, utilizzato o no, è il Gh, è la fiala preconfezionata - fiala da insulina...- di Epo, è l’Emagel, usato per diluire il sangue! Non è quello che negherebbe l’habeas corpus, il diritto di ciascuno, sia anche solo un marchiato ciclista professionista, a salvaguardare, con farmaci lecitissimi, la propria salute!
Il discorso, fin qui sereno, si può certo ammantare di dubbio e diffidenza quando semmai ci raccontano di centrifughine portatili in dotazione ai medici di squadra, per valutare lo stato di salute ematologica del ciclista: e non invece per pre-testare la loro idoneità agonistica, la soglia del 50% di ematocrito, prima di eventuali altre verifiche...
Ma a questo punto di sospetto, cari amici, fra sponsor e team manager ormai così avvertiti della disaffezione del pubblico e della sufficienza dei mass-media, preda di altri ben più facili orgasmi, perché non privilegiamo una coraggiosissima scelta di campo, deputando all’Organizzazione delle corse a tappe maggiori la totale responsabilità clinica delle formazioni in gara? Ovviamente, con un collegio medico creato a spese dei team stessi, e dotato degli opportuni elementi clinici di ciascun atleta trasmessi, nel rispetto della “privacy”, dai referenti sanitari delle singole squadre.
Ci sembra che il Tour de France, già da quest’anno, abbia assunto questa linea di gestione, per evitare difformità, diciamo comportamentali, da un’équipe all’altra. E per sposare una comune linea etica per il ciclismo maggiore. Indenne, perlomeno, dalla tentazione di arruolare medici di squadra troppo furbi.
Gian Paolo Porreca, napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare, editorialista de “Il Mattino”
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