Editoriale
Per anni sono andati in giro raccontandoci che lo sport doveva rimanere fuori dalla politica. Per anni ce l’hanno voluto far credere. Alla fine ci hanno confezionato una bella leggina che non solo ha avvicinato la politica allo sport, ma il mondo sportivo ha pensato bene di finirci dentro con mani e piedi. E il merito di tutto questo è del Ministro Giovanna Melandri che, tra le varie riforme fatte, ci ha consegnato un rinnovato sistema elettorale semplicemente grottesco.
E dire che ogni aspirante presidente si accosta all’appuntamento elettorale propinandoci il solito stucchevole slogan: «sarò il presidente di tutti», ben sapendo, peraltro, che questo non sarà assolutamente possibile. Non è possibile per il semplice fatto che con il diritto di voto sono solo 421 persone (grandi elettori) in rappresentanza di oltre cinquemila società e sessantamila tesserati. Davvero molto democratico.
Ma la Melandri è riuscita a fare molto di più e di meglio. Ha deciso di dare voce agli atleti per decreto. Nel consiglio federale dovranno essercene tre e non più di tre. In verità gli atleti o ex tali potevano essere eletti anche prima, come semplici tesserati, ma alla Melandri piaceva molto scorporare e suddividere: controllare è molto più semplice. Quello che più ci ha fatto specie è che con questa ultima trovata, la politica è diventata parte integrante dello sport. I Bugno, i Fondriest, i Villa, i Baffi e i Baldato si sono dovuti schierare. Si sono dovuti adoperare per la campagna elettorale, e se per Bugno e Fondriest non c’è nulla di imbarazzante, diversa è la situazione per quegli atleti che sono ancora corridori in attività. E se questi un giorno si venissero a trovare in situazioni imbarazzanti? Un problema di doping, per esempio, nel mondo del ciclismo non lo si nega a nessuno. In questo caso, come ci si comporterebbe: la trasparenza sarebbe garantita? Pensiamo di sì, ma non è certamente una gran bella idea coinvolgere atleti in attività in questioni di Palazzo. Nessuno vieta a questi un domani di intraprendere la carriera politica una volta smessi i panni del corridore, ma alla Melandri piaceva molto l’idea della minima rappresentatività, che non è proprio il massimo.

Non ce ne voglia Ivano Fanini, al quale ci ha sempre legato un’amicizia franca e sincera, ma l’idea d’ingaggiare nella Amore&Vita Beretta Richard Virenque non ci è parsa una delle sue uscite più felici. Sia ben chiaro, la nostra non è e non vuole essere una crociata contro il pupillo di Francia, ma una semplice considerazione. Fanini, in questi anni, si è costruito un’immagine di autentico combattente del doping. Il suo nome viene ormai associato quasi automaticamente a quelli che da anni si battono per rimettere pulizia nel mondo del ciclismo e, francamente, abbiamo trovato di pessimo gusto che all’indomani della condanna comminata a Virenque dalla Federciclismo Svizzera, lui si sia messo subito a disposizione per offrirgli un contratto. «Siamo una piccola squadra con grandi programmi - ha scritto in una nota -. Siamo disposti a fare il massimo per lui contrattualmente, per lottare ed ottenere la minima squalifica». Ma perché, per quale ragione? Virenque non è una vittima: tutt’altro. Ha sbagliato, ha mentito, ha perseverato e adesso, inspiegabilmente, lo si vuole trattare diversamente dagli altri. E quello che è peggio è che questa bislacca proposta arriva da chi si professa grande nemico del doping. Da chi non esita a levare gli scudi gridando allo scandalo. Cosa ha di tanto diverso Virenque dagli altri? Forse al momento è solo un buon veicolo pubblicitario a costo zero.

Corre, corre sempre, non la finisce più di correre: è una sorta di Forrest Gump di casa nostra. Ha 45 anni, vigile urbano di professione e corridore per vocazione. Non è un fulmine di guerra, visto e considerato che nella cronometro tricolore dello scorso mese di giugno è giunto a quasi venti minuti dal vincitore Marco Velo. Il suo nome è Eugenio Riboldi, e abbiamo deciso di parlarvene non perché in bicicletta abbia fatto qualcosa di significativo (quando deciderà di smettere di gareggiare sarà certamente un evento), ma perché il suo caso ha un significato tutto particolare. Arrivato ultimo nella prova tricolore élite, con ritardi che sarebbe bastata una clessidra per calcolarli, ha avuto il torto di non presentarsi al controllo antidoping e per questo è stato squalificato per due anni dalla disciplinare. È vero che le regole sono regole, ma in un ciclismo che discute se sia giusto o meno infliggere otto mesi di squalifica a Virenque, reo confesso di un uso sistematico di Eritropoietina (Epo), non ci sembra giusto oquantomeno esagerato comminare due anni a un modesto e sconosciuto corridore che si dimentica di andare a fare la pipì. Il povero Riboldi avrà tanti difetti, ma su una cosa possiamo metterci la mano: lui corre a pane e acqua, e si vede. È un tipo originale, malato in modo irreversibile di bicicletta. È malato naturalmente, ma senza nessun esogeno artifizio. Ha solo quella inguaribile malattia che prende il nome di «passione». In questi giorni ha presentato ricorso alla Commissione d’Appello Federale presieduta dall’avvocato Barbara Baratto Fabretto, e noi ci auguriamo che la tesi della buona fede venga accolta e di conseguenza si decida di comminargli una squalifica meno severa. Perché nel ridicolo, questa volta, non rischia di caderci il solo Riboldi ma la giustizia.
Pier Augusto Stagi
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