Certo, il 2018 porta in grembo, ciclisticamente inteso, un gran bel futuro. Bello, forse solo perché ignoto, come tutti i futuri che si intendono. Al di là dell’oroscopo e della buona sorte.
Personalmente, ci incuriosiscono molto in prospettiva l’esordio di Vincenzo Nibali al Fiandre e la partenza del Giro da Israele, la verifica di Tom Dumoulin e la scommessa unica, da lucido filosofo errante, di Adam Hansen, alla ricerca di un ventesimo Grande Giro consecutivo, il suo Grand Tour della vita... E ci dà una infinita noia invece la sola certezza, molto più concreta, che lo snodo cruciale del 2018 per il ciclismo maggiore sarà purtroppo costituito dal destino di Chris Froome, dopo il doping al salbutamolo... Giro o non Giro, con quel che ne deriva?
Ma il 2018 in corso di opera reca, ben altrimenti vivo, il sigillo sentimentale del ciclismo che abbiamo vissuto. Non vogliamo indulgere al dibattito sul valore o sul difetto del ricordo, anche se siamo dell’idea che i ricordi restano miracolosamente giovani, mentre al contrario noi giovani non lo siamo più. E così del 2018, ci viene da celebrare almeno la cifra tonda di un anniversario del ciclismo, per consolarci dell’attesa del futuro prossimo.
2018 le annate che finiscono con il magico numero “8”... Quanti riferimenti, nello zig zag della memoria... 1938 e 1948, i due Tour di Bartali, ad esempio. E riflettiamo, con un quid di amarezza, come i ricordi si nutrano, per essere davvero tangibili, della presenza di testimoni, di interlocutori. Non rimossi affatto, quei due Tour, allora, ma per noi troppo remoti.
E il 2018 ci suggerisce allora, con ovvia naturalezza, il 1998 straordinario di Marco Pantani, la sua accoppiata - da allora mai più riuscita a nessuno - Giro - Tour, in quelle stagioni devastate dal doping ed illuminate fino all’imbrunire dalla sua impresa. Venti anni da quella primavera e da quella estate, e sembra passato davvero da allora un tempo infinito. Certo perché sdrucito dal dolore di quel che è stato dopo. Il dolore scava più profonda la distanza dai giorni troppo felici.
Ma il 2018 sarà nella nostra versione dei ricordi, in assoluto, l’occasione dell’omaggio alla prima vittoria di Eddy Merckx al Giro d’Italia. Già, Giro d’Italia 1968, primo al Giro e primo belga nella storia, 50 anni fa. 50 anni, e la cifra tonda sembra ancora più rotonda, come disegnata da Giotto, un perfetto disegno ornato. Mezzo secolo da allora.
E curiosamente, l’avete capito, la malinconia struggente delle imprese di Marco Pantani si confronta nel nostro cuore alla dolcezza serena di quel successo di Eddy Merckx. Eddy Merckx, 23 anni non ancora compiuti, maglia Faema, la stessa che era stata un tempo di Charly Gaul, quel Giro partito da Campione d’Italia - nomen est omen - l’avrebbe elevato al cielo nell’impresa delle Tre Cime di Lavaredo e l’avrebbe concluso da dominatore proprio a Napoli, la mia città. Domenica 12 giugno, velodromo dell’Arenaccia, ultima tappa vinta da Guido Reybrouck, e in quel giorno fatidico per il ciclismo Napoli non era affatto una città solare. C’era una pioggia battente, e non bastavano gli ombrelli a riparare.
Merckx, il ragazzo belga quel giorno adottato dall' Italia, primo sul podio davanti al compagno di squadra Vittorio Adorni e a Felice Gimondi, non avrebbe certo stregato Napoli, non era mica un alunno del sole. Ma in quel pomeriggio di 50 anni fa regalava alla nostra giovinezza l’emozione senza eguali, ed ancora oggi senza tramonto, di un primo sogno rosa.
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