Resta nostra, profondamente nostra, la “Sanremo” di quaranta anni fa. Il 19 marzo 1977, era un San Giuseppe di sabato, di guardia in Ospedale e non potevamo sapere quanto avrebbe segnato per noi, e per il ciclismo, quella Sanremo del destino.
Ci ritorniamo, invero con un vago malincuore, a quel pomeriggio, a quella atmosfera, il televisore nella stanza del medico di guardia della Cardiochirurgia, a Largo Madonna delle Grazie, nella Napoli più antica, Caponapoli, si chiamava così quel poggio... E il gentile Maurizio, un garbato ironico tifoso del Napoli, a dividere le ore, l’anestesista di turno.
Ci ritorniamo, recuperando a stento - come sono passati gli anni, nel ciclismo e nella vita, spandendo silenzio sul cuore - quell’attesa del pomeriggio. Già: chi vincerà la Milano - Sanremo? Come ogni marzo, ogni primavera, da una esistenza, ma quella volta un po’ di più, la classica di primavera e della fantasia al comando...
Chi vincerà la Milano - Sanremo, al di là dell’adagio sospeso, era diventato infatti un concorso, e per noi non solo un tagliando della “rosea” da ritagliare e spedire con cura, ma una scommessa sentimentale su cui misteriosamente investire, “Chi vincerà la Milano - Sanremo?”, e noi storicamente condannati per amore di donna alla passione olandese, avevamo puntato su un nome solo: Raas, appunto.
Raas, Jan Raas, un atleta giovane, rampante, poco conosciuto, sia pure campione di Olanda in carica, in quella Frisol che schierava pure Ocaña e Van der Linden, outsider in un contesto di favoriti che declinava De Vlaeminck e Moser, Merckx e Van Linden, Baronchelli e Motta, l’iridato Maertens e il puledro Saronni....
Già, Jan Raas, un nome che ci aveva come una schioppettata folgorato la mente e che avrebbe perforato il video, quel pomeriggio. Un contropiede magistrale sul Poggio, in scia ad un affondo di Saronni e Leman, un saluto complice al compagno di squadra - e cognato... - Priem, rimasto ai margini per una foratura, e via sul falsopiano, e via col vento, quel vento di passione che il ciclismo lo sospingerà sempre, e via via dal gruppo schiumante e perplesso, via anche dalla voce cara di De Zan che implorava un ritorno di Moser, se non pure di Vlaeminck... 70, 80 metri, le curve in città, una fontana di acqua benedetta, Raas era irraggiungibile, e noi, in quel corridoio del reparto di Cardiochirurgia ci veniva quasi da saltare in piedi....
“L’occhialuto Raas”, primooo, e per noi miopi, anche se con le lenti a contatto, era uno sberleffo al pronostico altrui, un cin cin con gli occhiali e con la beneamata Olanda.
L’amico Maurizio, mediamente indifferente al ciclismo, l’anestesista con i baffi curati, ci dava un complice “gimm’ five”, “e bravo Raas...”, e tornava a sorseggiare un incommensurabile caffè.
No, non l’abbiamo raccontato bene, quel pomeriggio di 40 anni fa. Altre volte, l’abbiamo con più emozione letto in noi e affidato agli altri. È disadorno il sentimento, anche se non cede la nostalgia.
E se è viva tuttora, ma senza una extrasistole, la gioia dell’essere stato allora uno dei 44 appassionati lettori della Gazzetta, che indovinarono “Chi vincerà la Milano - Sanremo?”.
Nel tempo e nei giorni, non saremmo stati in grado di mettere le cose al posto giusto, nella scacchiera e nella gerarchia della vita. Ma qual è il posto giusto? E quel giorno importava solo vincere, alla faccia degli ordini precostituiti, lo so.
Più in là, mai lontani da quel trionfo gioioso, avremmo riconosciuto come nell’angolo di quella Sanremo di quaranta anni fa, si fosse consumato un addio silenzioso. Raas, - “ma chi è questo Raas e cosa è la Sanremo?” - aveva vinto per la nostra età sfrontata, come un magico bouquet di fiori da consegnare ad un amore di donna. Ma quel giorno, 96° nell' ordine di arrivo, mascherato fra Chinetti e Bouloux, se ne andava via dal mondo della Sanremo Eddy Merckx, lui che aveva vinte sette. 96° al traguardo, lui che era partito con il dorsale “1”.
Quella Sanremo 1977 della vittoria eclatante da giovani, da grandi si sarebbe specchiata, per una inattesa sanzione del tempo, strada facendo, nel ritratto sommesso di un addio. Cambiava il nostro sguardo, forse. O guardava solo più in là. Con una stessa infinita, serena tenerezza.
Gian Paolo Porreca,
napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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