Non starò qui a dire che non avere più una squadra autenticamente italiana, dopo che anche Saronni si è fatto gli occhi a mandorla, sia una festa nazionale. Non sono così perverso. Tuttavia, mi pare che in qualche modo si stia esagerando con quest’aria da fine impero. Niente da dire, ci siamo svenduti tutto in saldo, abbiamo cacciato a calci nel didietro diversi sponsor da leccarsi le dita, ma continuo a pensare che comunque il made in Italy abbia ancora sangue nelle vene, e persino un futuro davanti.
A tenere in piedi la speranza e l’orgoglio patriottico c’è soprattutto un fattore, solido e decisivo: il nostro sapere, la nostra cultura. Nel campo del ciclismo, l’Italia è diventata terra di conquista, ma non è terzo mondo. Tutt’altro. Se cinesi, coreani, kazaki, americani, australiani decidono di investire nel ciclismo e di fare shopping proprio qui, acquistando materiale tecnico e materiale umano, significa che siamo ancora qualcuno. E qualcosa. Gli altri avranno i soldi, ma a noi resta l’elemento più importante, cioè il saper fare. Il saper inventare. Ovviamente finchè dura, finchè non ci adegueremo agli schematismi rigidi e impersonali di altre culture, anche europee. Diventando insignificanti.
Davvero, non facciamone un dramma immane, di queste razzìe straniere in casa nostra. Non è da oggi che va così. Purtroppo, tra le nostre virtù non figurano l’organizzazione, la pianificazione, l’austerità. Non è solo il ciclismo attuale a finire nelle mani dei danarosi stranieri. Per scoprire l’America, Cristoforo Colombo dovette vendere il suo talento agli spagnoli. Leonardo, a un certo punto, finì emigrante in Francia, alla corte dei potentissimi locali, per esercitare la sua arte e il suo genio. Enrico Fermi, ne vogliamo parlare? E i tanti cervelli che tutti i giorni lasciano il nostro squinternato Paese per fare fortuna nelle università e nelle multinazionali più quotate del mondo? Siamo da sempre un popolo appetibile per le sue qualità, ma anche facilmente comprabile per la sua insanabile inclinazione impiastra, pasticciona, umorale. Ogni storia ha il suo destino. Questo è il nostro, a quanto pare.
Tornando a noi, gente in bicicletta. Sarebbe il caso di finirla, una buona volta, con il piagnisteo sciovinista sulla fine delle squadre italiane. A parte il fatto che presto o tardi qualcosa rinascerà (già il signor Segafredo mi sembra sulla buona strada), nel complesso dobbiamo soltanto accettare il corso dei tempi e dei costumi. Abbiamo esaltato come pecoroni belanti - chi più, chi meno - i vantaggi della mondializzazione, anche questa è mondializzazione. Capitali che si muovono tranquillamente da un continente all’altro, mercati aperti quanto il pianeta, interessi di conseguenza. Per difenderci non servono piagnistei, o stupide battaglie ideali di stampo autonomista. Il vero segnale di intelligenza è padroneggiare questi mutamenti. Governarli, non esserne governati. Se gli altri ci mettono i soldi perché hanno saputo farne di più e soprattutto conservarli meglio, ben vengano i loro soldi. Noi ci metteremo i nostri talenti naturali, che sono improvvisazione, flessibilità, gusto, insomma la vera intelligenza.
Nibali mezzo arabo, Aru mezzo kazako, Ulissi mezzo cinese. Non cambia poi così tanto rispetto al recente passato: Bettini era mezzo belga. La vera differenza è che da ora in poi, almeno per un po’ di tempo, saranno tutti al soldo straniero. Ma c’è una consolazione molto importante: dentro, nella persona, nel Dna, resteranno tutti essenzialmente e indelebilmente italiani. Corridori, diesse, team manager, massaggiatori, meccanici, persino biciclette, pullman e camper. Siamo sparsi in tutti i continenti, tutti credono nel nostro lavoro e nella nostra intelligenza, tutti spendono e investono per averci dalla loro parte. Sinceramente, mi sembra molto preferibile questa nuova dimensione, rispetto al presenziare con una squadra o due nel grande giro, ma senza personalità e senza reputazione. Stiamo allegri: il made in Italy non è morto. È vivo e vegeto. Sta solo cambiando: non siamo più padroni di noi stessi, siamo ammiratissimi fornitori di idee. Non è detto che sia peggio.
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