Rapporti&Relazioni
L'antisport del progresso

di Gian Paolo Ormezzano

La faccenda dei motorini na­scosti nei telai delle biciclette. Possibile? Possibile! Ma il tema è più vasto. Noi vecchi dello sport, e dico di tutti gli sport, dobbiamo abituarci a un mondo che non è quello in cui siamo cresciuti, dove lo sport era la rappresentazione diciamo anche fisica dei buoni sentimenti, la recitazione del­la vita giusta, e dove casomai lo stesso sport sublimava il classico bene che per comune statuizione era ottimo e abbondante un po’ dovunque. Adesso lo sport è divenuta un posto, come altri e più di altri, di esperimenti grossissimi, ri­voluzionari, anche empi, e addirittura per quel che riguarda la mo­rale è diventato, almeno nei suoi esempi massimi, quelli di élite, di vetrina, quelli cioè didascalici e an­che didattici, il posto ideale per tra­sgredire, peccare, agire con ogni disinvoltura, violare i dieci e anche i venti comandamenti con l’alibi del salutismo, dell’agonismo.

Niente di generazionalmente diabolico nei motorini, se esistono. Un giovane di og­gi mica si scandalizza se davvero li usano i ciclisti, un giovane mo­derno chiede casomai quale è il modello migliore. E prima ha vo­luto capire bene come funzionano. Idem per le protesi: fra poco sa­ranno cercate, non subite per la corsa e i salti, perché “rendono” ec­come. E ci saranno amputazioni ad hoc. E ci saranno pure trapianti di cuore ad hoc, appunto per la pratica sportiva ottimale.
Bisogna essere preparati ad ogni progresso, a ogni bestemmia del progresso, a ogni incanto del pro­gresso. Internet è già più dell’energia nucleare, tanto per dire, e chissà dove ci porterà. Personalis­si­ma­mente, a ottant’anni compiuti, in­vidio ai giovani non la balda sanità fisica, ma ogni minuto che, dopo di me, vivranno del divenire del pro­gresso. I motorini e i loro vasti, infiniti dintorni. Con un solo augurio diciamo ferreo, intransigente, un augurio che è una remora: che i fruitori del progresso sia­no onesti e lo spartiscano. La cosa brutta, come già nel doping che forse fa persino bene al fisico (sicu­ri che scalare un grande monte a pane e acqua sia meno dannoso che scalarlo con la giusta chimica coadiuvante? sicuri che i prodotti usati da Armstrong non debbano essere dati a vecchi, bambini, ma­la­ti?), la cosa brutta è la slealtà, cioè uno che del progresso approfitta e gli altri che non possono approfittarne perché non ne sanno niente. Questo è antisport.

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Valverde vince per la quarta volta la Freccia Vallone, è un grande primato. Dei tre principali giornali italiani non sportivi uno gli dedica una pagina, l’altro mezza pagina, il terzo una notiziola di poche righe.
Dì certo qualcuno sbaglia, per ec­cesso o per difetto. O forse sbagliano tutti. Sicuramente c’è confusione ideologica intorno al nuo­vo ciclismo. Chi lo vive alla maniera tradizionale, sport cioè di strapaese italo-franco-belga, chi lo vi­ve come un fenomeno diventato mondiale. Chi lo accoppia climaticamente all’emisfero nostro, chi prende atto di tanto ciclismo or­mai nell’emisfero australe. Chi lo ritiene nutrito da sponsor forti, chi lo ritiene ancorato ad appassionati poverelli, con la loro botteguccia. Chi lo vede sempre sport contadino, per rudi faticatori sommi, chi lo elegge a sport per delicati cittadini stufi delle auto. Chi lo vuole relegato a piccole strade, chi gli vuo­le consegnare le arterie principali delle grandi città.
Ognuno decide a piacer suo. Con una sola certezza: che comunque il ciclismo sta crescendo in un modo superextranuovo, e nessuno può sensatamente prevedergli il futuro.

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In Francia Hollande, il presidente della repubblica, dice solennemente che il terrorismo non impedirà il regolare svolgimento del campionato europeo di calcio e del Tour de France.
Domandina-domandaccia: siamo certi che, se l’Europeo di calcio 2016 fosse prossimo negli stadi italiani, i nostri Grandi Capi gli unirebbero il Giro d’Italia, o invece parlerebbero soltanto delle partite di pallone?

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Nostalgia perenne mia del grande Gianni Brera. Qui però gli faccio un dispetto: vorrei prospettargli Nibali siciliano e Aru sardo, i nostri due massimi pedalatori attuali, e sapere cosa ne dice lui, padano cantore delle virtù sportive padane, anche in bi­ci si capisce, anche negate ai meridionali. Come quella volta che da Helsinki mi permisi di prenderlo devotamente in giro. Correva il 1971, nella città finnica c’erano i campionati europei di atletica e gli chiesi per telefono come la mettevamo con gli eroi azzurri di una giornata italo-sudista, Fiasconaro grande quattrocentista italiano del Sudafrica di origini palermitane, una certa Ongar italiana d’Egitto brava ostacolista e un certo Men­nea pugliese velocista velocissimo. Quando il nordista sabaudo di Cu­neo Arese, fra l’altro amicone mio, vinse in quei campionati il titolo continentale dei 1500, il grande Gianni ebbe pietà di me e non mi telefonò per dirmene due, anzi duemila.
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